Cronaca

‘Ndrangheta, omertà alla milanese. Il pm: “Al processo 23 testimoni reticenti”

La denuncia nella requistoria del magistrato Paolo Storari al processo "Redux" contro il clan Flachi. La maggior parte delle vittime del pizzo ha fornito versioni "vergognose", arrivando a smentire il contenuto delle intercettazioni. Chiesti 16 anni di reclusione per il boss Pepè Flachi e altrettanti per Paolo Martino, uomo cerniera con politici e "vip"

Ben 23 testimoni che di fronte ai giudici non hanno trovato il coraggio di confermare le accuse contro il clan mafioso. Non a Palermo, non a Reggio Calabria, ma a Milano. Lo ha sottolineato il pm Paolo Storari, della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo lombardo, nella sua requisitoria contro il clan Flachi, uno dei più importanti e “storici” della ‘ndrangheta trapiantata al Nord, colpito dall’operazione Redux-Caposaldo il 14 marzo 2011. L’inchiesta ha svelato le attività criminali ed economiche del gruppo, dal traffico di droga al controllo di attività imprenditoriali lecite, tra le quali le filiali lombarde della multinazionale della logistica Tnt-Traco. E una fitta rete di estorsioni, in particolare nel mondo della “movida” milanese, dalle discoteche ai furgoni dei “paninari”, sottoposti a un pizzo sistematico. 

Sono soprattutto i gestori dei furgoni per la vendita dei panini l’oggetto della denuncia di Storari. Molti, ha detto il pm, hanno fornito “versioni vergognose”, impauriti dal clima di “assoggettamento mafioso“. Uno di loro, per esempio, nelle intercettazioni si mostrava ben consapevole del sistema del pizzo, salvo poi negare tutto in tribunale. Un altro è arrivato a smentire di aver accettato la “protezione” del clan Flachi, dopo averlo ammesso nel corso delle indagini. E c’è anche chi, davanti ai giudici, nega di conoscere personaggi con cui – risulta sempre dalle intercettazioni – ha intrattenuto lunghe conversazioni. Tra queste Giuseppe “Pinone” Amato, accusato di essere l’emissario del clan nella gestione delle estorsioni. E, salendo di livello, c’è anche un imprenditore del Nord che ha negato qualunque contatto con Giuseppe Romeo, uomo di punta dell’attività economica del Flachi, nonostante le intercettazioni indichino l’esatto contrario. 

Vittime impaurite? Anche, dato che per esempio il 18 luglio è andato a fuoco il furgone di Loreno Tetti, uno dei pochi che al processo ha confermato le tesi dell’accusa. Ma non solo. Perché, ha spiegato ancora Storari, i “paninari” estorti davano centinaia di euro al mese agli uomini della ‘ndrangheta, ma in cambio ne ricevevano “vantaggi“. Come dimostra l’inchiesta condotta da Guardia di Finanza, Ros e Polizia locale, chi pagava vedeva tutelata la sua “piazza” dall’arrivo di nuovi concorrenti. Il Comune, infatti, concede la licenza per l’attività e lascia i venditori liberi di sistemare il furgone nei luoghi giudicati più redditizi. Ma qui subentrava un’altra “licenza”, quella concessa o meno dai “calabresi”.

La mancanza di denunce da parte di commercianti e imprenditori lombardi vessati dalle cosche è un allarme ricorrente lanciato da Ilda Boccassini, coordinatrice della Dda di Milano, anche se a volte qualcuno il muro dell’omertà riesce a romperlo. Come Stefano Rizzo, che all’inizio dell’anno ha raccontato alle forze dell’ordine le minacce ricevute proprio dal clan Flachi

Al termine della requisitoria, il pm Storari ha chiesto pene pesanti per gli imputati, accusati a vario titolo di associazione mafiosa e altri reati. Sedici anni di reclusione per il patriarca Pepè Flachi, già protagonista del grande traffico di eroina nella Lombardia di fine anni Ottanta-inizio anni Novanta; 18 per suo fratello Emanuele; 14 per Giuseppe Amato, più volte “registrato” dagli investigatori mentre gestiva le estorsioni o ne svelava ad altri i meccanismi (compreso il politico del Pdl Marco Clemente); 18 a Giuseppe Romeo. Sedici anni sono stati richiesti per Paolo Martini, altro nome storico della ‘ndrangheta, forte di ottimi rapporti nel giro della politica lombarda e dei “vip”. A cui Pepé Flachi, detenuto di lungo corso, aveva affidato l’educazione criminale del figlio Davide.