Cultura

E poi il buio – De Andrè, G. Bruno, Dante, la semplicità…

“Confondi la facilità con la semplicità”, mi è stato precisato nel post precedente a riguardo di ciò che vi era scritto: ovvero che ritengo che la vera arte non sia semplice. Se vado sul vocabolario trovo, alla voce “semplicità”, la definizione figurata che dice: “Il concetto implicito di assenza di complessità o di complicazione può determinarsi nel senso della facilità (la semplicità di un ragionamento, la semplicità di un problema), della naturalezza (semplicità di modi)…” eccetera. Quello che dunque intendevo dire è che l’arte, se è arte, non è fatta in assenza di complicazione o complessità, poiché chi la fa si pone, all’atto della creazione, un problema non semplice/facile da risolvere.

L’argomento della semplicità/facilità mi piace, per cui approfondisco.

Disse Giordano Bruno: “La poesia non nasce dalle regole, se non per leggerissimo accidente; ma le regole derivano dalle poesie; e però tanti son geni e specie di vere regole, quanti son specie e geni di veri poeti”. Soffermandoci su quei “veri poeti”, si può dedurre che parlava di “vera arte”: lo metto fra virgolette non per dubitare di lui, ma per poter estendere in proporzione e relativizzazione il discorso ai giorni nostri – in cui la parola arte è molto meno carismatica – in questo blog gestito da un musicista rock (per ciò stesso potenziale usurpatore, nella visione di alcuni, volendo anche ragionevole), che cerca di dimostrare non la sua cultura, perché non crede di averne tanta, non la sua attitudine intellettuale, che sa di non voler avere (“Fate attenzione a un artista che è anche intellettuale: è l’artista che è di troppo” – F.S. Fitzgerald), ma le sue intuizioni, corroborate da una esperienza sul campo, dalle letture fatte, e dall’obbligo di sapersi assumere una responsabilità al fine di dare possibili chiavi di lettura a chi ne può essere desideroso.

Vorrei ricordare ciò che disse Fabrizio De Andrè quando gli chiesero se si riteneva un poeta. Rispose più o meno così: “Siccome lessi da qualche parte Benedetto Croce sostenere che da giovani tutti sono poeti, e da adulti o sono veri poeti o sono cretini, io nel dubbio mi preferisco definire autore di testi per canzone”. Evidentemente, direi, il grande De Andrè temeva quel “veri”, sapendo che c’è un’arte vera e una no. O che c’è l’arte e basta, se si preferisce. (Il discorso qua si farebbe lungo, ma, per prevenirlo, con un sunto agile dico di essermi ultimamente assestato sull’idea che la canzone – la grande canzone – è arte con un potere particolare: far leva su due ambiti espressivi, quello musicale e quello della lingua scritta in versi).

E’ piuttosto ricorrente e capibile l’attitudine un po’ naïf di chi ama sostenere di non amare le regole, le definizioni, le gabbie. Però, ad esempio, siccome l’arte moderna spesso mette in difficoltà il gusto dei molti che si chiedono “è vera arte oppure è fuffa?”, credo ci sia un senso nel farsi un gusto personale.

Il fatto è che se si decide di farselo si scopre che non c’è limite alla crescita (come la vita stessa insegna, portandoci purtroppo a sapere di non sapere), e questa passa per cognizioni graduali che affinano sempre più i ragionamenti, fino a certe sofisticherie che possono risultare pesanti (ma necessarie).

“La cosa che sente più stupidaggini al mondo è probabilmente un quadro di museo”, dissero i fratelli De Goncourt, e mi sembra spiritosamente vero.

Se fin qua quanto detto è plausibile, tornando a Giordano Bruno le “tante specie di vere regole quanto le specie di veri poeti” dimostrano che ogni vero artista affronta un problema quando inizia una creazione, e si trova le sue regole per risolverlo (credo molto alla costrizione che le forme danno: spremono la creatività molto più che la libertà presunta e assoluta. E d’altronde, a riguardo delle forme: “L’arte serve sempre la bellezza, e la bellezza è la felicità di possedere una forma, e la forma è la chiave organica dell’esistenza, tutto ciò che vive deve avere una forma per esistere, e, quindi, l’arte, anche quella tragica, racconta la felicità dell’esistenza”. Boris Pasternak dal Dottor Zivago.)

Quando scrissi “E poi il buio”, la regoletta che mi prefissai per portare a termine il mio progetto era vincolata al numero 3 (Dante, per carità, non c’entra niente con me, o meglio: io non c’entro nientissamemente niente di  niente con lui, però, di già che ci siamo, immaginate quale bel problema decise di affrontare per scrivere il suo capolavoro, dandosi delle regole ben precise: 3 sono i regni visitati, 3 sono i versi di ogni strofa – ovvero terzine – 3 sono le cantiche, composte ciascuna da 33 canti a parte l’Inferno che ne ha una in più, il proemio… Eccetera. Anche il 10 e il 100 sono numeri importanti nella Commedia. E il tutto, cosa di cruciale rilevanza, per un risultato sublime nella sua poeticità. A questo riguardo ecco un’altra cosa che disse Paul Valéry parlando della poesia in genere: “Una volta appresa, unirete alla musica della poesia quanti accenti e artifici servono perché essa sembri sgorgare dagli affetti e dalle passioni di qualche essere”. Sottolineo due termini cruciali: artifici, sembri). Molto più modesto era ovviamente il mio intento per la nostra canzone, peraltro legato per puro caso a un numero ma del tutto svincolato da derive cabalistiche, teologico-esoterico-filosofiche o quant’altro: suddividere in tre topici momenti (dal tramonto lussureggiante, alla mezza sfera del sole dietro la linea dei monti, alla notte simbolicamente senza luna) una narrazione che rappresentasse un sentimento conforme, con la musica in grado di assecondare l’escalation fino al climax. Per cui le regole che io e il mio gruppo ci imponemmo rappresentarono un problema da risolvere. (E se lo risolvemmo da artisti oppure no è ovviamente opinabile, come tante cose a questo mondo. Meglio però argomentare bene le proprie sentenze “oggettive”, se le si vuole esibire.)

Come ebbi modo di dire nel post precedente, se poi questi problemi a monte vengono gestiti a valle in modo che il risultato sembri, “come in un’eresia, di un’incredibile semplicità”… beh, la cosa è di per sé ammirevole e, dal mio punto di vista, sufficientemente invidiabile.

E ora i miei soliti tre ps…

Ps1: credo tutti abbiate sentito supporre che l’arte imita la natura… Beh, a prescindere da come la pensiate (può essere che sia un pensiero superato: francamente non saprei), molto di vero è secondo me in questa supposizione. E la natura, altrettanto indubitabilmente, è complessa in modo straordinario. E la sua complessità la dimostrano i milioni di anni che ha impiegato per manifestarsi così come la conosciamo. Se dunque l’arte la imita…

Ps3: nella biografia ufficiale di Leonard Cohen si apprende che alcuni suoi testi-canzoni si presero mesi di lavoro, prima che lui si ritenesse soddisfatto. Altri ancora, pochi, si presero anni. E visto che, come vi ho detto, sto leggendo il bellissimo “Joseph Anton” di Salman Rushdie… I suoi “Versi satanici”, che non ho letto, sostiene di averli scritti in 5 anni. Tanto per dire.

Ps3: come sempre ringrazio tanto coloro che hanno postato preziosi commenti: sapete chi siete… :) (sarebbe bello approfondire i guizzi suggeritimi, ad esempio quello sull’improvvisazione. Boh: vedremo…).

“Il sole disegna un cerchio rutilante sul telo di lino delle nuvole sfilacciate

frapposte alla mia sbirciata distratta

e con morbida perfezione la circonferenza si adagia sul lungo crinale del monte

dietro il quale scenderà in qualche placido istante”