Cultura

Morto un “Dallas” è dura farne un altro

Quale può essere il senso del riproporre il sequel di Dallas nell’anno in cui Emilio Fede ha chiuso bottega, il Grande Fratello non si sente tanto bene e perfino Silvio Berlusconi medita di ritirarsi negli spogliatoi (le disgrazie non vengono mai sole, ma a volte anche le buone notizie)? Dallas non è una serie qualsiasi; è la serie ammericana che nel 1981 Canale 5 strappò alla Rai dopo pochi mesi e divenne il feticcio del nascente polo Fininvest. Sfracelli di ascolti, ma anche anima riposta dei tempi; in quegli affari della famiglia Ewing tutta soldi, sesso, lusso e potere palpitava la quintessenza del reaganismo, della sua traduzione italiana, il craxismo, e anche i prodromi della sua malattia senile, il berlusconismo. Erano i tempi in cui far sognare agli spettatori un ranch pieno di petrolio, e intanto farsi costruire una piramide firmata dall’architetto.

Ebbene, a giudicare dalla prima puntata mandata in onda martedì sera, naturalmente su Canale 5, e dai miserevoli ascolti raccattati, forse il momento non è dei più propizi per resuscitare le nuove tresche degli Ewing, che poi di nuovo hanno ben poco. Il mitico ranch di Southfolk adesso è in mano agli eredi, visto che Sue Ellen è morta e J.R. giace immoto su una sedia a rotelle, ma non c’è problema, la faida è intatta e il fiele appena spillato come se invece di trent’anni fosse passato uno spot di trenta secondi.

C’è il rampollo futurista che vorrebbe vendere tutto, magari su eBay, e c’è invece chi il ranch vorrebbe farlo trivellare perché ha scoperto nuovi giacimenti milionari; il tutto farcito con odi atavici, pan per focaccia, tradimenti seriali e piani diabolici. La Porsche ha preso il posto dell’Hummer, ma sono dettagli. Per il resto Dallas è ancora lì, con la stessa dinasty, la stessa visione del mondo da voltastomaco, gli stessi visi ritoccati dallo stesso chirurgo plastico (chiedo scusa se non li cito nel dettaglio, ma non ci riesco. Con queste serie ho sempre avuto insormontabili difficoltà nel riconoscere materialmente i protagonisti, gli uomini mi sembrano tutti Mickey Rourke e le donne mi sembrano tutte Daniela Santanchè). Basta aspettare venti minuti e anche J.R., pur in sedia a rotelle, si sveglia dal torpore comincia a sfornare sentenze da scolpire nel marmo: “Papà, voglio impugnare il testamento, ma come farò a pagare gli avvocati?” “Non preoccuparti, figlio mio. I tribunali sono per i dilettanti e per i deboli di cuore. Questa è una storia personale”.

Insomma, Dallas è sempre Dallas e non potrebbe essere altrimenti, altrimenti non sarebbe Dallas. È anche una questione di forma: la stragrande parte delle serie Tv, nonostante si tenti di farle passare per sofisticato genere d’autore, restano le eredi naturale del feuilleton, del fumetto e del fotoromanzo, generi la cui morfologia profonda non ammette deroghe.

L’unica cosa a essere cambiata sono gli ascolti, ma non daremmo tutta la colpa ai perfidi Ewing. Perfino la Tv ha una coscienza, e forse il desiderio di questa riproposta va cercato nell’inconscio; chissà, tutto può ancora tornare esattamente come trent’anni fa, tutto deve cambiare perché tutto rimanga com’è. Cominciamo da J.R., e vediamo che succede. L’inconscio la sa lunga, ma purtroppo gli capita di confondere i sogni coi desideri. Gli italiani ne hanno bevute tante, ma forse un’altra Dallas anche no.

Il Fatto Quotidiano, 18 Ottobre 2012