Ambiente & Veleni

In missione contro la pesca illegale (rettifica e risposta all’interno)

Nell’Oceano Indiano le lenze usate per la pesca al tonno sono lunghe 80 chilometri e hanno 1200 ami infallibili. E se sali a bordo di un peschereccio taiwanese ti accorgi che le vittime non sono solo i tonni, le razze e i pesci spada ma sono gli stessi pescatori. Qui i controlli per fermare la pesca illegale sono insufficienti e le stive dei pescherecci asiatici sono piene zeppe di pinne di squalo.

Siamo partiti circa due settimane fa da Maputo, Mozambico, a bordo della Rainbow Warrior con un preciso obiettivo: documentare le attività di pesca e monitorare l’area. È la prima volta che ci spingiamo a queste latitudini dalle quali proviene circa un quarto del tonno pescato a livello globale, Italia compresa. Le barche europee e asiatiche impegnate nella pesca al tonno si concentrano qui, al largo del Madagascar.

Quando incontriamo un peschereccio la prassi è sempre la stessa. Il segnale sul radar, lta chiamata al capitano, la richiesta di poter salire a bordo, e via sul gommone! Intercettiamo il primo peschereccio il 2 ottobre. È spagnolo. Salgo a bordo e, di fronte a me, ecco la cattura giornaliera in tutta la sua gravità: tonni pinna gialla, un tonno obeso, un marlin, due enormi pesci spada, e… uno squalo. Quando si pesca con palamiti, le catture accessorie sono inevitabili. Come la meravigliosa manta oceanica – sulla lista degli animali in pericolo – che vedo saltare a pelo d’acqua a poca distanza da noi. I pescatori catturano anche lei e poi la liberano. Ci dicono di farlo normalmente, ma senza nessuno che controlli risulta difficile crederlo.

Per gli squali che abboccano all’amo il destino è ancora più crudele. L’8 ottobre intercettiamo tre pescherecci asiatici. Sul primo il capitano ci fa salire solo dopo due ore. Tempo utile per mettere tutto in regola. Libri di bordo perfettamente compilati, nessun tonno sotto misura, nessuno squalo e nessuna pinna di squalo! È quasi impossibile trovare un peschereccio taiwanese senza pinne di squali. Le pinne vengono vendute a prezzi molto alti sul mercato asiatico, fino a 740 dollari al chilo. E ogni anno si stima che vengano uccisi tra 26 e 73 milioni di squali per venderne le pinne. Circa 8000 squali uccisi in un’ora.

Senza concedere nemmeno un minuto per fare ordine e pulizia, saliamo sugli altri due pescherecci. Bingo! Le stive sono piene di pinne ma non c’è traccia del corpo. Tagliare la pinna agli squali e ributtarli in mare vivi è una pratica comune sui pescherecci asiatici che pescano con palamiti. È illegale, oltre a essere crudele, ma viene praticata. Si stima che il numero di squali nel mondo si sia ridotto di circa l’80%, e un terzo delle specie di squalo oggi è considerata a rischio.

Questo sistema senza scrupoli che saccheggia i mari per una scatoletta di tonno miete anche altre vittime… Intrappolati in acque lontane per anni, pescatori indonesiani, vietnamiti, filippini pescano il tonno in condizioni al limite dell’umanità. Sei mesi in mare, qualche giorno in porto e poi di nuovo in oceano aperto, senza rivedere le proprie famiglie per anni. Turni di 14 ore di lavoro al giorno sotto un capitano cinese che a stento capiscono, con un salario che raramente supera i 250 dollari al mese. E poi c’è il tonno, venduto a circa 75 dollari al pezzo. Se pensiamo che ogni giorno si pescano in media dai 20 agli 80 tonni, il calcolo è facile: qualcuno molto lontano da queste acque sta guadagnando un sacco di soldi a scapito dell’ecosistema marino e dei lavoratori costretti a condizioni durissime per sfamare i propri cari.

Cambiare, però, è possibile. In Italia si consumano oltre 140mila tonnellate di tonno in scatola all’anno, e molto del tonno consumato viene importato proprio dall’Oceano Indiano. Le scelte dei consumatori possono fare la differenza in queste acque lontane. Dobbiamo chiedere alle grandi aziende del tonno in scatola di comprare solo tonno pescato in modo sostenibile ed equo, preferendo le piccole flotte dei paesi costieri. In Italia possiamo iniziare dal leader sul nostro mercato, Rio Mare. Come fare? Con un semplice click.

Giorgia Monti, responsabile campagna Mare Greenpeace Italia 

 

 

  

 

 

 

 

Riceviamo e pubblichiamo la rettifica inviataci da Bolton Alimentari – 19 ottobre 2012, ore 17.45

Bolton Alimentari: infondate le accuse di pesca illegale e sfruttamento dei lavoratori

Milano, 18 ottobre 2012 – In riferimento all’articolo “In missione contro la pesca illegale” pubblicato lo scorso 15 ottobre su ilfattoquotidiano.it, Bolton Alimentari, proprietaria del marchio Rio Mare, desidera effettuare delle precisazioni volte a dimostrare l’infondatezza delle accuse di pesca illegale e sfruttamento dei lavoratori rivolte all’Azienda. Al fine di fornire ai lettori delle informazioni corrette, utili a comprendere l’operato di Bolton Alimentari, e nel rispetto delle persone che quotidianamente svolgono con professionalità il proprio lavoro nell’Azienda, si richiede pertanto la pubblicazione di questa nota.

L’Azienda tiene innanzitutto a sottolineare come la “Tuna Policy Bolton Alimentari 2011-2013”,resa pubblica in occasione del lancio del progetto di Corporate Social Responsability “Qualità Responsabile”, imponga, a tutti i fornitori del Gruppo, il divieto di utilizzare tonno pescato da Long Liner, tecnica di pesca oggetto della notizia e del documentario cui viene fatto riferimento. Tale policy prevede anche il divieto sia allo “shark finning” sia all’approvvigionamento da società con barche iscritte nelle liste IUU – Illegal, Unreported and Unregulated fishing (pesca pirata). Bolton Alimentari monitora costantemente e rigorosamente l’applicazione e il pieno rispetto della policy, interrompendo i rapporti di collaborazione con i fornitori che non si attengono alle linee guida impartite.

Inoltre l’impegno di Bolton Alimentari nel ricorso a metodi di pesca sostenibili è inoltre supportato da:

Bolton Alimentari, tramite l’ISSF, partecipa inoltre al più grande progetto di ricerca scientifica volto a rendere più sostenibili le attuali tecniche di pesca del tonno, il progetto “Major Tuna Conservation”, a cui partecipano: WWF International, Birdlife International, NOAA (National Oceanic Atmospheric Administration), RFMO (Regional Fisheries Management Organisations) con il patrocinio della FAO.

In merito al presunto sfruttamento dei lavoratori, Bolton Alimentari tiene a precisare che i fornitori di tutto il mondo devono rigorosamente attenersi al Codice etico del gruppo Bolton ovvero un impegno al massimo rispetto delle norme sul lavoro nei confronti dei propri dipendenti. Anche in questo caso Bolton Alimentari interrompe i rapporti di collaborazione con i fornitori che non si attengono alle linee guida impartite

In considerazione di quanto sopra riportato, risulta dunque del tutto privo di fondamento il riferimento al marchio Rio Mare presente nell’articolo in questione. Come in altre occasioni passate, il ricorso a Rio Mare è infatti esclusivamente dovuto alla volontà di ottenere facile visibilità attraverso delle critiche, basate su informazioni indirette e inesatte, rivolte ad una marca molto nota.

Risposta di Greenpeace alla replica di Bolton Alimentari:

Greenpeace non rivolge nessuna accusa “di pesca illegale e sfruttamento dei lavoratori” a Bolton Alimentari e quindi a Rio Mare. La nostra petizione, peraltro attiva dallo scorso marzo e che ha già raccolto oltre 44 mila firme, chiede, infatti, esplicitamente a Rio Mare “un impegno deciso per eliminare totalmente dai propri prodotti tonno pescato con metodi di pesca distruttivi”. Sappiamo bene, tra l’altro, che il testo di tale petizione è ben noto a Bolton: da mesi continua a rispondere ai firmatari dell’appello che la compagnia ha tutte le carte in regola rispetto alla sostenibilità.

Tuttavia, come l’azienda stessa ha riconosciuto, i due metodi di pesca al tonno più sostenibili sono il “pole and line” e il “FAD free”: proprio per questo Rio Mare si è impegnato a utilizzare entro il 2013 solo tonno pescato con tali metodi nel 45% della propria produzione. E il resto? 

Su questo, Rio Mare fa un passo indietro, dichiarando di “privilegiare i metodi sostenibili quali Pole&Line, FAD Free e Free School” ma anche  di “considerare “sostenibile” l’utilizzo di altre metodologie di pesca” future.

Ci si chiede perché Rio Mare lascia la porta aperta ad altri possibili metodi di pesca, se sa già qual è la soluzione: impegnarsi subito a utilizzare nel 100% delle sue scatolette solo tonno catturato con canna e reti a circuizione senza FAD. Soltanto impegnandosi senza “se” e senza “ma” potremo essere davvero sicuri della “qualità responsabile” di Rio Mare. Altre aziende l’hanno già fatto.

Solo così potremo procedere verso una globale sostenibilità del settore che – come ben vediamo dal testo del blog – ha impatti purtroppo gravi ben oltre le dirette responsabilità di Rio Mare. Per noi, è ovvio che per primi si devono muovere i più grandi: troppo grandi per essere insostenibili.