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Addio Erasmus, giovane illusione

Qualche illuminato, ogni tanto, ha provato a dire che dovrebbe essere obbligatorio: almeno un semestre via da qui, fuori dalle beghe di casa, lontano dalle abitudini nostrane, via, a farti le ossa in Europa. Invece non ci sono i soldi e l’Erasmus, annunciano, forse non ci sarà più. Aveva appena festeggiato i 25 anni: un quarto di secolo in cui tre milioni di studenti universitari hanno fatto la valigia e sono andati a studiare in un altro paese dell’Unione. Studiare. Diciamo la verità, lo studio – inteso come libri, scrivanie, esami e professori da temere – forse è l’ultima cosa che uno ricorda di quei sei mesi di squilibrio. Squilibrato, se lo ricordano così, quel viaggio che di solito comincia a settembre o a febbraio, si interrompe a luglio, ma nella testa di chi l’ha fatto non è finito mai. Se non altro perché ancora oggi, magari a dieci anni di distanza, ha un amico a Londra, uno a Granada, un altro a Nantes e un altro ancora a Coimbra. Una rete che resiste al ritorno, perché in comune ha la sensazione di aver fatto parte, anche solo per un attimo, di qualcosa di più grande di lei.

Partire non è facile: i posti sono pochi, bisogna dimostrare di essere in regola con gli studi, azzeccare la meta meno ambita, avere anche qualche soldo a disposizione, visto che l’assegno (200 euro circa, al netto di eventuali borse di studio) lascia scoperte una marea di spese. C’è la selezione, il subentro, il ripescaggio: come alla lotteria. E chi vince, va.

Basterebbe la prima settimana per dire che ne vale la pena: basterebbe mettersi nei panni di una poco più che ventenne che sale per la prima volta su un aereo da sola, che atterra in un luogo dove parlano una lingua sconosciuta, che deve trovarsi una casa, degli amici, un nuovo posto nel mondo. Squilibrio, è la parola giusta. Perché che tu finisca nel posto più civilizzato del nord Europa oppure in un Portogallo che sembra fermo ai nostri anni Sessanta, quello che più impari a conoscere sono i vizi e le virtù di casa tua. C’è chi dice che non si è mai sentito tanto italiano come quando era in Erasmus. Di certo, nel bene e nel male, in quei mesi ci sono tutto il tempo e la distanza necessari per setacciare la propria vita pubblica e privata. Ovvio, dipende come lo si affronta.

C’è chi arriva e si accasa: frotte di italiani che vivono nello stesso posto, parlano solo tra di loro, cucinano quintali di pasta per consolarsi dalla nostalgia. Ma questi si incontrano in qualsiasi vacanza (e per fortuna sono una minoranza). Gli altri invece assaporano la sensazione irripetibile di ricominciare tutto da zero: pantofolai che iniziano a fare capoeira, viziatissimi che imparano a cucinare, sfaticati che approfittano di università meno dure di quelle italiane per fare incetta di esami, secchioni che mettono da parte i sensi di colpa e si abbandonano alla vita. Ci prendono talmente gusto – a vedere cosa fanno alla tv, cosa scrivono i giornali, come funzionano gli autobus, come puliscono le strade – che arrivano all’Internet point per scrivere a casa sempre un minuto dopo che abbia già chiuso. Qualcuno alla fine resta lì, convinto che in patria non potrà trovare di meglio, né per la sua vita pubblica né per quella privata. A chi torna, la vita, è cambiata comunque.

E quando incrocia fuori dall’Università uno straniero, riconosce la stessa faccia squilibrata, quella di chi prova a diventare prima di tutto un cittadino, magari europeo.

 

 Il Fatto Quotidiano, 6 ottobre 2012