Cultura

Reality, evviva il “non capolavoro” di Garrone

Luciano vive a Napoli, fa il pescivendolo, è sposato con Maria e ha tre figli. Per hobby si esibisce in imitazioni e travestimenti a feste e matrimoni. Sarà per questo che un giorno la figlia più piccola gli chiede di fare un provino per il Grande Fratello in un grande magazzino partenopeo. Luciano passa il turno e si sottopone a un’altra prova, a Cinecittà. Pare sia andato tutto bene. Anche se i responsabili del programma non si fanno più sentire. Ma Luciano è sicuro: è stato preso e presto glielo diranno. Da quel momento, il pescivendolo legge ogni cosa che gli accade nella vita quotidiana come un segno che il Grande Fratello lo sta mettendo alla prova.

Tratto da un episodio di cronaca, Reality è un film barocco e sovrabbondante come i suoi boteriani personaggi, ma con una regia attenta e perfettamente consapevole della progressione narrativa. Da un’inquadratura aerea su una carrozza, ci si inabissa un po’ alla volta per arrivare ai primi piani paranoici di un protagonista ormai in preda alla propria ossessione per poi tornare – in un finale che fa perfettamente eco all’inquadratura iniziale – in alto verso il cielo. Garrone ha un naturale talento per la regia. Senza fronzoli, senza ricercatezze inutili buttate là per stupire. In Garrone il linguaggio della macchina da presa è funzionale al racconto. Questa commedia nera che ruota attorno alla divinità pagana che è la televisione contiene però massicce dosi di macchiette.

La prima mezz’ora presenta ambienti e caratteri, ma prima che Reality ingrani ci passa un po’. Come per E’ stato il figlio di Daniele Ciprì, anche per Garrone i poveracci sono brutti, ignoranti e le loro aspirazioni verghianamente destinate al fallimento. Come per Ciprì, sono attorniati da un’umanità che pare uscita dal circo e frequentano luoghi (dal parco acquatico, all’hotel dei matrimoni) pacchiani: si sfiora il manierismo, sebbene i contrasti tra le piazze d’epoca (sfasciate) e i luoghi d’aggregazione moderni (vanamente tirati a lucido) funzionino.

In questa fiaba triste, l’idea davvero felice è la progressiva ossessione che attanaglia il pescivendolo, che ben risuona con l’origine scaramantico-religiosa ipotizzata dal regista e con quella ancor più decisiva, ovvero che ogni giorno, dalla famiglia alla parrocchia, siamo protagonisti del reality della nostra esistenza. Che tutto sia (o possa essere) finzione. Peccato che la forza di queste idee si disperda in rivoli e scenette non sempre all’altezza (tutta la faccenda della truffa col robottino è francamente moscia) e che The Truman Show, ribaltando totalmente i fattori (il protagonista non sapeva di essere dentro a un programma tv) avesse pensato a tutto questo prima dell’esistenza dei Grandi Fratelli. Un po’ Totò, un po’ burattino e basta, Luciano – come tutti gli altri – è poi un personaggio appena abbozzato.

Più interessante che, relegato al passato come il luogo in cui vive, Luciano sogni un “reality” che non c’è più (e per davvero: Canale 5 lo ha sospeso) e che in ogni caso non sarebbe più popolato da persone magari bizzarre, come lui, ma da novelli Barbie&Ken, ovvero pettorute donzelle e ragazzotti palestrati. La religione pagana in cui Luciano crede è però quella di tutti: trovare una giustificazione “esterna” – metafisica o meno – che dia un senso alle nostre azioni anche quando sono del tutto scriteriate. I

n questo senso (e solo in questo) il tema può far venire in mente un lavoro stilisticamente distante anni luce come Lourdes di Jessica Hausner. Gran Premio della Giuria a Cannes, il successore di Gomorra non è il capolavoro che è obbligato a essere – come se un regista dovesse far solo opere indimenticabili – ma un buon film con alti e bassi. Evviva.