Cultura

Ciprì, saggezza sicula ma senza storia

Sarà anche stato il figlio, ma le colpe ricadono sul padre, ovvero il regista. Alleviati gli insopprimibili impulsi di alzarsi dalla poltrona nei primi 10-15 minuti del film solo grazie alla strenua resistenza del ricordo delle scenette di ciprìmaresco memoria–riprodotte nel film con stessa bella cura fotografica – ma forse proprio per questa riproduzione ripetuta indotti ad abbandonare la visione, si resta concentrandosi sui particolari grotteschi, abietti e per questo efficaci, pur se la storia non si sa proprio ove vada.

E allora mirabile resta la camminata stolida del padre-Servillo che sopravanza la sua armata familiare di brancaleoni che tornano su un ponte verso il carcere della loro esistenza a forma di condominio ecomostruoso anni ’70, che rappresenta la prigione delle loro pulsioni e dell’anima che non va oltre i sogni di lusso da straccioni (tra i desideri la spunterà la Mercedes turbo, tassata all’epoca – siamo negli anni ’80 – al 35% di Iva come bene di lusso e non al 20% – legge voluta dalla Fiat per ridurre le esportazioni di auto di grossa cilindrata tedesche).

Miserabilità macchiettistica replicata nelle smorfie, nelle fissità degli sguardi, nell’onirismo fellinico di cannoli e fichi d’india che si librano sullo sfondo, di scenette costruite con maestria, ma che non sviluppano un racconto, almeno fino al riscatto finale: un’arringa di stregonesca saggezza sicula che dà una dimensione e un ancoraggio a un film senza storia ma tante immagini.