Mondo

Le confessioni in prigione dei “ribelli riluttanti” siriani

Sono entrati nell’ufficio del direttore uno alla volta, a capo chino e con le braccia incrociate come fossero ammanettati. In una delle prigioni militari più dure della Siria mi hanno raccontato perché hanno deciso di aiutare i ribelli a rovesciare il regime di Assad. Si sono seduti dinanzi a me: un franco-algerino piuttosto basso sulla quarantina, con una lunga barba; un turco che mi ha detto di essere stato addestrato in un campo talebano lungo il confine afgano-pachistano; un siriano che mi ha raccontato di aver aiutato due attentatori suicidi a farsi saltare in aria nel centro di Damasco e un mufti che si è lanciato in una lunga filippica sulla necessità di unire tutti i siriani.

Incontrare questi quattro prigionieri in un carcere di massima sicurezza è stata un’esperienza che mi ha toccato. Due recavano sul corpo i segni chiari delle violenze subite dopo l’arresto. Ci ho messo più di dieci minuti a convincere il governatore militare della prigione e un ufficiale dei servizi a lasciarci soli.

Due prigionieri mi hanno raccontato in che modo erano stati reclutati dai predicatori islamisti e un altro mi ha parlato di come si era unito alla jihad. Il franco-algerino si è letteralmente buttato su un cartoccio di pollo e patatine che gli ho offerto. Uno dei siriani mi ha detto che lo tenevano costantemente in isolamento. Ho promesso loro che avrei riferito ogni cosa alla Croce Rossa Internazionale.

Mohamed Amin Ali al-Abdullah, 26 anni, studiava medicina a Deir el-Zour, nella Siria settentrionale. “Ho avuto gravi problemi psicologici durante il secondo anno di università e ho accettato l’aiuto di uno sheikh che mi ha consigliato alcune letture del Corano. Un suo aiutante mi faceva ascoltare discorsi che inneggiavano alla causa salafista. Poi mi ha mostrato dei video nei quali si condannavano tutte le sette islamiche, tranne quella salafista”. Durante il colloquio Mohamed è scoppiato più volte a piangere.

Quando l’anno passato è iniziata la rivolta, a Mohamed fu detto di prendere parte alle dimostrazioni. “Il venerdì alla fine della preghiera uno di noi si alzava e cominciava a denunciare le ingiustizie e il regime di oppressione” .

Più o meno nello stesso periodo Mohamed fu presentato a un salafista di nome Al-Hajer che gli chiese di “aiutare il movimento offrendo assistenza medica e logistica e nascondendo i ricercati”. Al-Hajer cominciò a frequentare la casa di Mohamed e “mi indusse a prestare una sorta di giuramento riconoscendo che lui era il mio capo e che gli doveva ubbidienza seguendo la jihad senza fare domande”.

Mentre parlava, Mohamed era nervoso e impacciato. “Al-Hajer portava spesso degli sconosciuti a casa mia. Il 10 aprile uno di questi mi chiese di andare con lui in auto. Mi portò in un posto dove c’erano una decina di uomini e molto esplosivo. C’erano un palestinese e un giordano che dovevano compiere un attentato suicida e tre iracheni. Non mi dissero quale era l’obiettivo, ma non appena feci ritorno a casa sentii una prima esplosione seguita poco dopo da un’altra esplosione molto più forte. Quella sera in televisione vidi che erano morti moltissimi poveri innocenti e stetti male”.

Pochi giorni dopo uno dei salafisti gli chiese di andare a fare visita a sua madre ricoverata in ospedale, ma gli agenti del Mukhabarat, i servizi segreti, lo stavano aspettando. “Dissi agli agenti che ero contento di essere stato arrestato perché non volevo più avere niente a che fare con quella gente e non volevo essere complice di quelle barbarie. Ora voglio scrivere un libro per far conoscere la mia storia. Ma finora non mi hanno dato né la carta né la penna”.

Due mesi fa Mohamed ha ricevuto la vista del padre, insegnante, della madre e di sua sorella. Gli ho chiesto se lo avevano maltrattato. “Solo una volta”, mi ha risposto. “Ma non mi hanno torturato”. Gli ho chiesto come mai aveva due cicatrici sul polso. “Sono caduto in bagno”, è stata la risposta.

Jamel Amer al-Khodoud, quarantottenne, ex militare dell’esercito francese, moglie e figli a Marsiglia, mi ha raccontato con accenti più patetici il suo desiderio di unirsi alla jihad incoraggiato dai servizi trasmessi da Al-Jazeera sulle sofferenze dei musulmani in Siria. Nato a Blida ed emigrato in Francia dove, pur parlando il francese alla perfezione, aveva trovato solo lavori saltuari, “alla fine dopo molte esitazioni decisi di andare in Turchia per aiutare i rifugiati siriani”. Era, come mi ha raccontato, un “salafista moderato”, ma nei campi profughi aveva conosciuto uno sheikh libico, molti tunisini e un imam yemenita “che mi insegnarono cosa era veramente la guerra santa”. Attraversò la frontiera siriana armato e, insieme ad altri, attaccò diversi posti di blocco dormendo in case e moschee abbandonate nella zona di Latakia. “Dopo qualche settimana capii che la jihad in Siria non era roba per me e decisi di tornare in Turchia per poi raggiungere la Francia”. Catturato da alcuni abitanti di un villaggio fu consegnato alle autorità che lo trasferirono a Damasco in elicottero. Perché non ha scelto la Palestina per combattere la guerra santa? “Perché un amico palestinese mi ha detto che i palestinesi avevano bisogno di soldi non di uomini”, mi ha risposto. Quando gli ho chiesto se durante la detenzione lo avevano trattato male, mi ha risposto: “Grazie a Dio sto bene”.

Un imam siriano della moschea Khadija al-Khobra di Damasco, Sheikh Ahmed Galibo, mi ha raccontato i suoi incontri con i leader di quattro diversi “gruppi militanti siriani” che avevano obiettivi nazionalisti e religiosi diversi e di come aveva tentato di unirli scoprendo però che erano ladri, assassini e stupratori e non jihadisti. “Chi non la pensava come loro veniva assassinato, decapitato e gettato nelle fogne. Personalmente ho assistito a sette omicidi”.

Le forze di sicurezza siriane sapendo che il mufti aveva incontrato i quattro leader estremisti lo hanno arrestato il 15 aprile. Mi ha detto di aver reso piena confessione perché questi militanti “non fanno parte di un esercito ribelle”. “Sono stato trattato bene”, ha aggiunto. “È tutta colpa dell’emiro del Qatar che condanno. Sono certo che verrò rimesso in libertà perché mi sono pentito”.

Cuma Ozturk è originario di Gaziantep, nella Turchia sud-orientale ed è entrato in Si-ria dopo mesi di addestramento in un campo talebano al confine tra Pakistan e Afghanistan. Pur di raggiungere Damasco ha lasciato a casa la moglie incinta e la figlia di 3 anni. Mi ha parlato della jihad in termini molto vaghi, ma una cosa precisa l’ha detta: “Mi hanno chiesto di organizzare il contrabbando tra la Turchia e Damasco e, in qualche circostanza, di aiutare alcune persone ad attraversarla frontiera. Mi hanno arrestato ad Aleppo dove ero andato al funerale di mia suocera. Mi pento di tutto quello che ho fatto”. Confermandomi, come gli altri, di essere stato trattato bene, mi ha chiesto di far sapere dove si trova alle autorità turche.

Alla fine del lungo colloquio, ho avanzato delle richieste al direttore della prigione che mi ha risposto sorridendo e allargando le braccia: “Non dipende da me”. I quattro prigionieri sono usciti a testa bassa come erano arrivati.

 © The Independent – Traduzione di Carlo Antonio Biscotto

Il Fatto Quotidiano, 4 settembre 2012