Diritti

Rachel Corrie e l’ennesima prova dell’impunità dell’esercito israeliano

 Oltre alla grande amarezza per la decisione di oggi, ci sono due cose che a mio parere emergono dalla vicenda di Rachel Corrie:

1. la cultura di assoluta impunità che caratterizza le azioni, violazioni e crimini commessi dall’esercito israeliano;
2. la mancanza di considerazione e rispetto della vita umana a fronte delle logiche di difesa e sicurezza.

Rachel, come i civili palestinesi che cercava – forse ingenuamente, certamente  con passione e consapevolezza – di difendere, emergono quali vittime sacrificabili di questo conflitto; effetti collaterali di una guerra asimmetrica che protegge i militari molto piú che la popolazione civile.

I fatti risalgono al 2003: siamo nel cuore della seconda intifada, gli scontri tra Israeliani e Palestinesi sono violentissimi. Sono gli anni degli attacchi terroristici da parte dei Palestinesi in Israele e delle dure repressioni da parte degli Israeliani in Cisgiordania e a Gaza.

Secondo fonti israeliane, dei circa 4800 Palestinesi uccisi negli anni dalla scoppio della seconda intifada al 2008 solo un terzo o poco piú (35%) sarebbero stati coinvolti in attivitá militari o para-militari. Tra le 1053 vittime Israeliane meno di un terzo sarebbero stati militari (31%).

La pratica della distruzione delle case palestinesi è ampiamente utilizzata dall’esercito israeliano. Come denunciano dagli avvocati del Centre for Constitutional Rights di New York, che ha tentato di portare in giudizio la Caterpillar, gli enormi bulldozer americani – ritoccati specialmente per gli usi di guerra israeliani – hanno distrutto piú di 4.000 abitazioni solo in quegli anni, ferendo, uccidendo o lasciando senza casa migliaia di famiglie palestinesi.

Ufficialmente si tratta di bonificare il territorio dai presunti terroristi e di spianare le aree di confine (la c.d. buffer zone); in realtá si tratta spesso di ritorsioni, di punizioni collettive nei confronti della popolazione civile tutta, che come tali sono state a piú riprese condannate a livello internazionale, anche come distruzione di proprietá civile, che è vietata e prevista come crimine di guerra ai sensi degli articoli 53 e 147 della IV convenzione di Ginevra (a meno che la distruzione sia “assolutamente necessaria” ai fini dell’operazione militare).

Rachel Corrie si opponeva a tutto ciò: armata di giubbotto arancione fosforescente e megafono si “interponeva” tra i soldati, o i bulldozer, e gli obiettivi da distruggere. Quando l’enorme Caterpillar l’ha schiacciata stava cercando di impedire che la casa della famiglia del medico palestinese ove era ospitata venisse rasa al suolo. I testimoni presenti con lei sul luogo al momento del fatto giurano da 9 anni che non è possibile che il soldato che guidava non l’avesse vista.

I genitori di Rachel hanno un solo desiderio: che venga svolta un’indagine accurata e indipendente sulla morte di loro figlia. Per questo nel 2005 avevano presentato ricorso contro lo stato di Israele alla Corte di Haifa; a loro parere, l’indagine militare condotta nel 2003 e conclusa sbrigativamente al fine che nessuna responsabilità potesse essere imputata all’esercito israeliano non era accettabile.

Dello stesso parere sono peraltro tutte le organizzazioni per i diritti umani, nonché l’ambasciatore americano in Israele, il quale, relazionando nel maggio 2011 al comitato per gli affari esteri americano, ha dichiarato: “Per sette anni abbiamo fatto pressione sul governo di Israele ai piú alti livelli perché conducessero una indagine accurata, trasparente e credibile sulle circostanze della sua (di Rachel Corrie) morte. Il governo di Israele ha risposto che considera il caso chiuso e che non ha intenzione di riaprire una indagine sull’incidente”.

Il giudice Oded Gershon, presidente del collegio nel tribunale di Haifa, ha tuttavia avallato la decisione dell’esercito di non procedere con alcuna indagine penale nei confronti del soldato che guidava il bulldozer che ha ucciso Rachel Corrie, ed inoltre non ha riscontrato alcuna negligenza in tal senso da parte dello stato israeliano.

Per chi conosce bene la realtà della giustizia militare israeliana viene da dire ‘tutto come da copione’. La mancata apertura di un’indagine accurata e indipendente sulla morte di questa giovane attivista americana va solo ad aggiungersi alle centinaia, migliaia, di mancate indagini aperte nei confronti di civili uccisi come vittime collaterali di questo conflitto. Come riportato da B’tselem, la piú importante organizzazione israeliana per i diritti umani, in dieci anni solo il 3% dei casi in cui è stata chiesta l’apertura di un’indagine per l’uccisione di palestinesi da parte di soldati israeliani ha originato un’indagine penale.