Sport

Business da assenze olimpiche

Non sarà un’inchiesta a chiarire l’inganno dell’apparente sold out: gli spalti semivuoti delle Olimpiadi di Londra sono il simbolo di una gestione plastificata dello sport, sempre più finto, speculazione e profitto. E sempre meno accessibile, spontaneo e anima popolare.

Basta andarsi a rivedere le immagini delle edizioni precedenti per coglierne l’entità: il misurometro dell’occupazione degli stadi è sempre stato il grado reale del tasso di penetrazione dello sport nella società civile e nella cultura popolare. Per questo, se oggi Londra mostra desolanti tribune svuotate, mimetizzate addirittura coi militari, porsi il problema è il minimo che si possa fare: lo sport è stato sequestrato dal suo naturale bacino d’utenza, è in ostaggio di ideologi del prodotto globalizzato, svenduto alle strategie degli sponsor e alla speculazione del botteghino, nouvelle emarginazione in caste mascherate dai cinque cerchi.

Che lo sport sia diventato roba per soli clienti consumatori e non più per tifosi, lo testimonia chiaramente la fine immonda a cui è stato ridotto il calcio, per eccellenza sport più seguito e praticato al mondo. Da decenni il football contemporaneo non è altro che l’ombra di se stesso, controfigura della sua ultra centenaria storia, di quando l’alloro non poteva certo perire sotto l’ingombrante peso dell’oro. Un’inversione di tendenza sospinta proprio dall’Inghilterra, quando già dalle fine degli anni ’90 iniziò a precludere gli stadi alla working class, rincarando ticket e abbonamenti, profondendo merchandising su scala planetaria. Risultato? Tifosi virtuali contro tifosi reali. Solo così si spiegano le 400 sterline necessarie per un singolo biglietto olimpico: l’elevazione del grado di accessibilità per l’emozione live di Londra è l’indice della tramutazione elitaria e virtualizzata di spazi un tempo popolari, ora preda di buoni pagatori e aree hospitality per aziende e multinazionali.

L’operazione marketing oriented ha toccato l’apice nella cerimonia d’inaugurazione all’Olympic Park. Sport come fiction, sport come intrattenimento televisivo. Quattro ore di show milionario senza precedenti, a metà tra kolossal e spettacolarizzazione filmica, per un seguito planetario stimato in quattro miliardi di telespettatori, tutti sintonizzati sullo stesso stadio, trasformato in un teatro a cielo aperto, entertainment al costo di 59 mila euro per 30 secondi di passaggio Rai.

La Regina Elisabetta in versione Bond Girl è stata l’emblema di questa mutazione antropologica: nella globalizzazione dei prodotti e delle risorse umane, dove la finanza virtuale supera il mercato reale, anche per le teorie semplificate del barone De Coubertin non c’è più posto. Le Olimpiadi hanno abbandonato la terra per sbarcare su un altro pianeta. Prima del default, si salvi chi può.