Società

‘A me non può succedere’: il fascino dell’autoinganno

Qualche giorno fa ho scritto un post su una poveretta che era stata aggredita da due cani da guardia: ho avuto oltre 250 commenti, nella maggior parte pesantemente critici. L’argomento del post era più sulla psicologia umana, materia nella quale ho una laurea, piuttosto che sui cani, dei quali non so nulla.

Oggi voglio ampliare lo stesso discorso, e parlare di come noi interpretiamo alcuni eventi dolorosi. In Italia si contano ogni anno intorno a 200.000 incidenti d’auto con circa 4.000 morti e 300.000 feriti (dati Istat 2010). Sempre in Italia si stimano 34.000 nuovi casi di tumori del polmone ogni anno e oltre 27.000 decessi (dati Airc). Non ho trovato una buona statistica sulle aggressioni dei cani in Italia; uno studio riporta che nel 2008 negli Stati Uniti ci sono stati oltre 300.000 interventi medici e 9.500 ricoveri ospedalieri dovuti a questa causa.
La recente strage di Denver fa parte di una classe di eventi tragici frequenti soprattutto nei paesi nelle quali la vendita delle armi è relativamente libera (oltre 9.000 morti all’anno negli Usa). Questi eventi spaventosi (e altri ancora di cui si potrebbero citare le statistiche) hanno, mi pare, una cosa in comune: sono associati a comportamenti a rischio. Tutti sappiamo che diminuire l’uso dell’auto e limitare la velocità nella guida riducono il rischio di incidente, senza ovviamente abolirlo; smettere di fumare o evitare di incominciare riduce il rischio del tumore del polmone; scegliere un cane di taglia modesta e di buona indole riduce il rischio o almeno la gravità di eventuali aggressioni a sé e agli altri; i paesi nei quali la vendita di armi è severamente limitata sono relativamente protetti dagli incidenti connessi; eccetera.

Le rinunce non sono il nostro forte: per molti di noi è impossibile persino ammettere che un comportamento che ci piace possa essere causa di rischio e debba essere sottoposto a limitazioni. Allora scattano meccanismi psicologici che ci portano a giustificare il nostro comportamento “in qualche modo”. Uno studio classico di psicologia su questo tipo di meccanismi fu pubblicato da Festinger e Carlsmith del 1959; due più recenti e più pertinenti al discorso in esame si trovano qui e qui. Come funziona dal punto di vista logico la “razionalizzazione” di un comportamento pericoloso? Un ragionamento abbastanza comune è costruito come segue: ogni evento ha una o più cause: ciò che appare come una probabilità cieca è in realtà frutto di cause nascoste; pertanto, se io sto attento ad evitare le queste ultime, il comportamento apparentemente pericoloso diventerà innocuo. Una persona può, ad esempio, dire a se stessa: l’incidente d’auto capita a chi guida male: io non rischio perché guido bene. Oppure: il cancro del polmone viene a chi ha una predisposizione ereditaria, che nella mia famiglia non c’è: posso fumare senza pericolo. O ancora l’aggressività del cane è causata dall’inadeguato comportamento del padrone; io so trattare i cani e quindi il mio cane non diventerà mai aggressivo. E ancora: le armi servono per difendersi: possederle mi protegge.

Il difetto teorico delle razionalizzazioni è che non sono vere e si basano su assunti travisati, indimostrati o incompleti. Consegue il loro difetto pratico: funzionano solo nella nostra testa perché il mondo non è interamente deterministico, ogni evento ha una sua probabilità, e tutti siamo a rischio. Posso guidare bene quanto mi pare, ma la sicurezza in macchina dipende anche dagli altri e dall’integrità del mio mezzo: se mi scoppia una gomma a 150 km/ora finisco male pure se sono un grande pilota; se andavo a 80 km/ora ho qualche speranza in più e quindi è prudente limitare la velocità. Purtroppo chi si appoggia al falso senso di sicurezza di una razionalizzazione per giustificare un comportamento potenzialmente pericoloso è più a rischio per se e per gli altri di chi invece valuta realisticamente e accetta qualche minima limitazione.