Società

Cinecittà, come sempre si scambia la bellezza con la speculazione

La chiusura di Cinecittà e la trasformazione degli storici studi nell’ennesima speculazione fondiaria forniscono la migliore chiave interpretativa del profondo tunnel in cui è piombata l’Italia.

Il primo elemento riguarda il disvelarsi della nefandezza dell’ideologia della privatizzazione a tutti i costi, che ha dominato la cultura di questi due ultimi decenni. Non che non ci fosse il bisogno di dismettere pezzi di attività che non attengono a una moderna concezione dello Stato. Il problema è che in questo caso, come in quello della Telecom, delle Autostrade, dell’Alitalia e tanti altri ancora, la privatizzazione è servita per creare un monopolio privato o per lanciare nuovi “capitani coraggiosi” che si sarebbero poi rivelati come modesti speculatori. Nel 1997 la proprietà di Cinecittà passa a una holding guidata da Luigi Abete, famiglia di imprenditori romani con grandi presenze nel sistema creditizio. Non si fanno investimenti e i gloriosi studi cinematografici declinano verso un inevitabile fallimento.

E qui arriva la secondo pilastro su cui questa irresponsabile classe dirigente ha pensato e pensa di trovare la base per il futuro italiano: la speculazione fondiaria. Un futuro dal cuore antico se si pensa che la storia dell’Italia unita – a iniziare dallo scandalo della Banca Romana del 1887-88 – è stato caratterizzato da ignobili speculazioni e scempi del territorio. I due edifici gemelli di piazza Esedra a Roma, ad esempio, versavano proprio negli stessi anni della privatizzazione di Cinecittà in condizioni di degrado. Il maggior industriale alberghiero italiano, Boscolo, si candida per trasformarne uno in un albergo di prestigio ma pretende un regalo in termini speculativi: aumentare l’altezza dell’edificio di un piano per costruirvi piscina e spazi comuni. L’amministrazione comunale guidata da Francesco Rutelli accolse entusiasticamente la proposta e così la prima piazza della Roma piemontese che ebbe vita da un concorso internazionale vinto dall’architetto Koch nel 1888 è stata sfregiata per sempre.

Si perdono bellezza e memoria in cambio di modesti risultati. Come a Cinecittà, dove un’attività di oltre settanta anni di produzione aveva creato una rete importante di piccole aziende specializzate, di tecnici di grande bravura e professionalità; di maestranze in grado di dare soluzione alle richieste dei più grandi registi del mondo. Questa straordinaria cultura del lavoro e della qualità delle risorse umane viene cancellata per creare l’ennesima (Roma ha otre 100 mila posti letto in alberghi) struttura ricettiva in cui lavoreranno al gradino più basso della specializzazione, addetti alle pulizie e inservienti. La ricchezza dei saperi e dei mestieri sacrificata alla speculazione.

E qui si apre l’ultimo capitolo dell’incapacità della classe dirigente italiana a delineare un futuro possibile. La monocultura del mattone ha funzionato per oltre un secolo, ma oggi non ha più alcuna possibilità. Gli operatori più avveduti e le ricerche di settore più autorevoli ci dicono che il numero degli alloggi invenduti in ogni parte d’Italia rischia di creare una bolla immobiliare come quella che ha travolto l’economia spagnola e che sta sfiorando persino la solida Olanda. A Roma le stime più prudenti parlano di centomila alloggi invenduti, ma basta girare per l’intero paese per vedere una selva di alloggi vuoti, di capannoni abbandonati e di cartelli con la scritta “vendesi”.

Ma se esiste questa situazione di squilibrio di mercato, perché i dirigenti di Cinecittà o delle tante operazioni speculative che punteggiano il paese danno vita a nuove iniziative edilizie? Se non c’è mercato non si vende: quindi il cemento si dovrebbe fermare. Invece non si ferma: la risposta sta nella condizioni strutturali. Le leve dell’economia urbana sono nelle mani delle grandi istituti di credito che negli anni scorsi si sono esposti oltre misura nel finanziare la comoda speculazione edilizia. Devono oggi rientrare a tutti i costi delle loro esposizioni: ecco il motivo del progetto Cinecittà o della scandalosa legge sugli “stadi” approvata ieri alla Camera dei Deputati che consente alle società di calcio, indebitate fino al collo con le banche, di costruire in deroga rispetto a qualsiasi regola urbanistica, alberghi, centri commerciali e quant’altro. Come a Cinecittà.

Nella guerra senza quartiere che caratterizza questa convulsa fase di crisi economica e finanziaria ciascuno cerca di scamparla o di ridurre le perdite. Se si perde la storia produttiva, se si cancella una città intera o un’economia intera non interessa più. Lo sguardo di quella che fu classe dirigente si ferma al breve periodo, a speculazioni che denunciano soltanto un tragico vuoto di prospettive.