Cultura

Che filosofia sarebbe senza contemporaneità?

La filosofia non può eludere il confronto con la contemporaneità senza rischiare di rimanere vittima di quell’ossessione identitaria (espressione di Th. W. Adorno), con cui ha convissuto per secoli. In altri termini, la filosofia non poté rinunciare al confronto, per esempio, nell’epoca di Aristotele, con la tragedia, perché in quello stesso periodo la tragedia era il genere più ‘popolare’; lo stesso dicasi per il Kierkegaard e della prima parte di Aut aut, dedicata al Don Giovanni di Mozart, un’opera che, nella stessa misura del suo autore, in quel contesto storico poteva ben considerarsi come un’icona di straordinaria popolarità. Vi è addirittura una corrente della filosofia tedesca del Settecento che si definì Popularphilosophie (filosofia popolare), senza che questo abbia significato abdicare in linea di principio alla funzione di ‘critica della ricerca filosofica’. Uno dei miei filosofi prediletti,Walter Benjamin, ne ‘L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’, stabilisce un confronto critico con la radio, la fotografia, il cinema, forme di espressione che, invece, altri snobbavano in quanto arti di massa.

Nella contemporaneità, un fenomeno sociale, di costume (anche con aspetti degenerativi inquietanti) come il calcio può meritare l’attenzione della filosofia per motivi analoghi a quelli che attirarono l’interesse di Aristotele nei confronti della tragedia. Tant’è vero che un filosofo tedesco della religione e della morale, Bernhard Welte, ha dedicato a questo sport un piccolo volume, come l’autore del celebre ‘L’amore e l’Occidente’, Denis de Rougemont e lo stesso Jean Paul Sartre – grande appassionato di calcio – in una sezione della sua ‘Critica della ragione dialettica’.

Quando la filosofia rinuncia pregiudizialmente a questo genere di confronto finisce con il cadere nella ‘tentazione identitaria’, rimanendo sempre uguale a se stessa, quasi sospesa in un limbo, al di fuori della storia e dei problemi reali. Una rinuncia fatale, per i suoi effetti sul sociale: l’ossessione identitaria a livello teorico è affetta dallo stesso tipo di ossessione che possiamo riscontrare anche in ambiti come l’economia e in quei rapporti sociali che rifiutano ogni apertura alle differenze.

Il confronto ineludibile con la contemporaneità – ho ben presente le penetranti analisi del sociologo ungherese Franz Furedi – non significa ovviamente accettazione conformistica di tutto ciò che nella nostra epoca si afferma.

Il confronto presume semplicemente una presa d’atto iniziale non vincolante, una presa d’atto che può trasformarsi rapidamente, ove il caso lo imponga, in un severo giudizio critico, in una rigorosa presa di distanza. Questa è la filosofia, questa è sempre stata e sempre lo sarà, a meno di snaturarsi in un conformismo dolciastro o in un rifugio ‘passatista’, fuori del tempo. Cerco di tenermi ugualmente distante da queste due concezioni, entrambe aberranti.