Cultura

Il dolore e la rabbia<br> della Diaz

Il signore avrà circa settanta anni. Indossa un impermeabile beige e ha un ombrello protetto dalla plastica, quella che danno nei cinema e nei negozi per non creare pozzanghere in interno borghese. Lo vedo uscire dalla sala quattro del cinema Lux: ha appena visto Diaz, al primo spettacolo. Io sto entrando al secondo spettacolo. Johnny Palomba vi direbbe anche la fila, G, e il posto, 3. Il signore, con lo sguardo fiero, lo vedo a sorpresa rientrare in sala. Rivede il film. Accanto a me. Io lo guardo forse stupito. Lui mi sorride. Buio. Il film comincia.

Piano piano il film ti prende per mano e ti conduce dentro la Diaz. Una bottiglia che si infrange sulla strada al rallentatore va e viene, a scandire partenze e ripartenze del film, artifici della sceneggiatura, ma forse anche della memoria, che ama ricostruire a tratti, senza un necessario nesso temporale.

Urla dal piano di sotto.

“Alzate le mani”, in segno di pace.

Volti squarciati. Braccia spezzate.  Sangue.

Dappertutto.

E i poliziotti, i poliziotti si esaltano, pisciano, imbrogliano, picchiano, inorridiscono.

Tu vedi il film, in alcuni momenti ti sembra di soffocare, ma poi esci dalla scuola e ci sono due corpi belli che si amano, quattro corpi salvi per caso che tremano, i corpi di chi indossa il potere che tramano. Rientri nella scuola, e i corpi sono tutti martoriati.

Non riesco a stare fermo sulla poltrona. Mi agito in continuazione, forse infastidisco anche il signore con l’impermeabile, che a differenza mia è impassibile. E’ scomodo questo film. Ma le due ore e sette minuti passano come se fossero dieci minuti.

Mi ritrovo sui titoli di coda a nascondere le lacrime. Il signore con l’impermeabile è l’unico, oltre me, che è rimasto seduto. Mi guarda. Sorride strofinandosi gli occhi. “Questo film si deve vedere due volte: la prima per piangere di dolore, la seconda per piangere di rabbia”.

All’uscita del cinema, piove a dirotto. Il signore con l’impermeabile beige apre il suo ombrello e si avvia verso casa. Io tiro su il cappuccio del mio giubbotto nero. Tra quelli che devono entrare in sala c’è Federico Pacifici, uno degli strepitosi attori del film. E’ un mio amico. Dovrei salutarlo, ma adesso proprio non ce la faccio.

Ho troppo dolore. Ho troppa rabbia.

P.S.: Non posso non dedicare qualche parola di elogio e ammirazione per il produttore di questo film, Domenico Procacci, senza dubbio il migliore della mia generazione. Ha voluto questo film con ostinazione, lo ha fatto contro tutto e contro tutti, esponendosi a noiose polemiche anche da parte di chi sta dalla parte giusta, perché un film secondo molti dovrebbe spiegare, non emozionare. Io penso che un film è soprattutto un film. E quando ti emoziona, ti fa pensare, ti costringe a portartelo dietro per ore o giorni, è un film importante. Ecco, Diaz è un film importante. E dietro i film importanti, oltre al regista, agli sceneggiatori, agli attori, a tutti i collaboratori (quanto sono giusti i costumi di questo film! quanto sono giuste le musiche di questo film!), c’è sempre un grande produttore.