Politica

I “bingo dell’Unità” e i compagni che giocano Gli affari da sala giochi degli amici dei Ds

Il primo segno della discesa in affari dei dalemiani è il tentativo di diffondere in Italia la passione anglosassone per il bingo "di Stato". Ma tanti partiti hanno puntato sul bingo: presidente di una società fu l'ex dc Scotti, ma ci provò anche la Lega con Bingo.net

Estratto da “Sottobosco” di Claudio Gatti e Ferruccio Sansa

Chiarelettere, Milano 2012

Il bingo alla Festa dell’Unità

Il primo segno tangibile della discesa in affari a livello nazionale dei dalemiani è il tentativo di diffondere nel nostro paese la passione anglosassone per il bingo, una sorta di tombola con premi in denaro che si gioca in sale autorizzate dallo Stato. Le cronache raccontano che lo sbarco in Italia avviene nel luglio del 1999 in un luogo del tutto inatteso, la storica Festa dell’Unità di Testaccio, quartiere romano con un cuore rosso e un passato popolare. Pare una festa come quelle che si ripetono ogni anno, con una liturgia da fare invidia alla Chiesa cattolica: i dibattiti politici che si consumano tra il vociare dei presenti, il profumo di fritto dei banchetti, le falene impazzite che volano nell’estate romana. Poi gli immancabili cineforum sempre affollati e la tombola dove gioco e golosità si confondono grazie ai premi in salsicce e caciotte. Ma nel luglio del 1999 a Testaccio arriva la sorpresa: gli organizzatori coinvolgono una società iberica, la Cirsa. Con migliaia di sale bingo in Spagna, è uno dei leader mondiali del gioco d’azzardo.

L’Italia è terreno vergine per il bingo, ma Cirsa è già presente con cinquemila videopoker. Il passo successivo, complice il partito della sinistra, è proprio quello del Testaccio, dove viene impiantata una sala bingo volante. È un vero trionfo. Per la Cirsa la conquista può cominciare. Le cavie sono proprio loro: i compagni di partito. Il bingo infatti è un gioco per il popolo. Siamo lontani dalle somme giocate e perse sui tavoli verdi di Montecarlo o Sanremo. Qui si puntano al massimo venti euro. Non vengono professionisti che devono superare la noia con il brivido del gioco. No, al bingo si affacciano pensionati, impiegati con un modesto bilancio familiare, casalinghe, ragazzotti di borgata con lavori se va bene saltuari.

Prima magari ammazzavano il tempo davanti alla tivù oppure bighellonavano per la strada o nei locali. Ora, tutti potenziali clienti del bingo. Nel nome di quello che viene presentato come il progresso – un nuovo gioco, capace di divertire, di aggregare giovani e vecchi – in tutta Italia cominciano a sparire balere di paese e cinema storici. A Genova, per esempio, chiudono due cinematografi: il Dante e l’Augustus. In poche settimane le insegne vecchie di decenni vengono sostituite da luci scintillanti.

All’inizio sui marciapiedi si formano rapide code. Davvero parrebbe un modo nuovo per socializzare: incontriamo Liza, una ragazzetta di diciotto anni che della cinquina non sembra curarsi più di tanto, ma ci investe la paga da barista. Accanto a lei Ines, casalinga in pensione che spera di conquistare quei pochi euro che le mancano per comprarsi il biglietto del treno per andare a Zurigo dalla figlia. E ancora Marco, che si passa nervosamente tra le mani due biglietti da dieci: «Sì, intanto lo hai indovinato, sono disoccupato» ti precede appena immagina che tu possa fargli la domanda.

È l’inizio del pomeriggio quando entrano. A fine giornata li incontri all’uscita e non hai nemmeno bisogno di chiedere com’è andata: Liza ha il trucco sciolto dal caldo e le linee nere intorno agli occhi sembrano i pestoni di un pugile. Ha perso i soldi e quello che cercava. Ines si infila rapidamente in borsa ciò che le resta, non ha voglia di parlare. E Marco? Gli sono rimasti in tasca pochi spiccioli, buoni appena per uno spuntino da McDonald’s. Lo senti e ti viene in mente un passo de Il giocatore di Fëdor Dostoevskij: «Avevo perduto tutto… sono uscito dal casino e a un tratto mi accorgo che nel taschino del panciotto c’è ancora un fiorino dimenticato. Fra me e me ho pensato che così avrei potuto cenare. Poi, dopo aver fatto un centinaio di passi, ci ho ripensato e sono tornato indietro. Ho puntato quel fiorino». Marco fa dietrofront e rientra nella sala bingo. Non è difficile indovinare come finirà. Dopo poco esce a tasche vuote: «Il bingo è un disastro» commenta. «Pare un gioco innocuo. Invece, euro dopo euro, ti svuota il portafogli». Nella sfida persa da Marco (e tanti altri) contro il bingo non c’è la tragicità del Giocatore di Dostoevskij. Ma forse si trova ancor meno speranza.

Una cosa è sicura: all’inizio degli anni Duemila pochi giocatori, o forse nessuno, avrebbero detto che dietro le insegne sgargianti del bingo ci fossero gli ex compagni del Pci. O meglio, i loro amici d’affari.

London Court, la banca d’affari di Palazzo Chigi

Prima di spiegare meglio cosa c’è dietro il boom del bingo in Italia bisogna fare un piccolo passo indietro. E parlare della London Court, una finanziaria nata nel 1998 su iniziativa di Roberto De Santis. Il nome della società fa pensare agli attivissimi mercati finanziari inglesi, invece ha sede a Roma e opera nell’Italia di fine millennio governata dal centrosinistra. Il presidente è Piero Masia e il suo vice è lo stesso De Santis. Tra i maggiori azionisti incontriamo nelle prime fasi il finanziere genovese Alberto Lolli Ghetti, che ritroveremo collegato al gruppo in altre società.

All’inizio pochissimi sembrano saperne qualcosa. Le pagine economiche dei giornali non vi prestano molta attenzione. Finché non spunta lui, Francesco Cossiga, che parlava spesso, ma mai a vanvera. Con una battuta il Picconatore porta London Court all’onore delle cronache nazionali: «Una giovane, vivace, coraggiosa, piccola banca d’affari» la definisce. Quattro aggettivi che paiono scelti molto sapientemente, come era abitudine dell’ex presidente, e che possono essere letti più o meno in positivo.

«Giovane» potrebbe significare inesperta, «vivace» sa di avventurosa. O perlomeno molto, troppo intraprendente. E poi c’è il «piccola» che ridimensiona le ambizioni della banca dal nome altisonante. Cossiga prosegue: «Sappiamo che queste banche servono a promuovere affari e a organizzare le costellazioni del potere politico. Ma in un regime reale di economia privata non si vede perché, per fare delle scelte, si debbano salire le scale di Palazzo Chigi». Ecco l’ironia «perfida» di Cossiga, che senza nemmeno pronunciare il nome, punta il faro sull’allora premier Massimo D’Alema. Cossiga va oltre e accosta London Court a grandi calibri come Monte dei Paschi di Siena oppure Bnl, alludendo all’area di influenza dei Ds nel potere economico.

Insomma, la polemica è servita. E difatti i giornali si buttano a pesce su London Court per ricostruirne la storia. Un’impresa non facile, perché i nostri amici seguono una tecnica collaudata: società che cambiano soci, che partecipano a una miriade di altre imprese, che raccolgono personaggi di provenienze politiche ed economiche diverse. London Court, ricordano le cronache dell’epoca, ha tre partecipazioni: tanto per cominciare c’è la High Point Rendel Italia, specializzata nel project finance. Poi c’è la Undici, una piccola società che si lancia nell’impresa di creare un nuovo giornale sportivo, «Rigore». Ma è la terza costola della London Court ad attirare l’attenzione di molti: Formula Bingo, una società nata per entrare nel grande affare del bingo italiano. Fin da subito c’è chi segnala la vicinanza della società al gruppo degli amici di D’Alema. Sempre negata. «Quelle dei D’Alema boys sono sciocchezze. La verità è che ho grande stima di D’Alema, che conosco da trent’anni. Lo stimo, ma non mi ha aiutato nel bingo. Penso che ci sia un linciaggio nei suoi confronti, non posso fare niente» dichiara Luciano Consoli, vicepresidente del cda, al Corriere della Sera il 23 luglio 2001. Tra i soci di Formula Bingo c’è la sua Chance Mode Italia (di cui era consigliere De Santis). Consoli è un ex militante del Pci, nonché amico di D’Alema e di Walter Veltroni, ed è noto alle cronache, tra l’altro, per essersi lanciato in iniziative editoriali: prima ha finanziato La Voce di Indro Montanelli, poi ha partecipato all’avventura della Red Tv di D’Alema, nata nel 2008 e chiusa nel 2010.

L’apriporta Vincenzo Scotti

La Chance Mode, fa notare per primo l’Espresso, sbarca nel mondo delle scommesse alla fine degli anni Novanta avendo stipulato l’intesa con il patron della Formula 1, Bernie Ecclestone, per il toto legato ai gran premi. Di qui il passo verso il bingo. Con agganci bipartisan: nel 2000 la presidenza della Formula Bingo è affidata a un nome notissimo della politica, Vincenzo Scotti. I cronisti all’inizio non credono ai propri occhi: che cosa c’entra l’ex ministro dei governi di Andreotti, Craxi e Amato con la tombola? Ecco la risposta di Consoli: «Volevamo un presidente che avesse esperienza in sede istituzionale, che consentisse un più facile ingresso in alcune stanze». E quella dello stesso Scotti: «Non ho ruoli operativi, sono un superconsulente. Do consigli, indicazioni, spiego a quali porte bisogna andare a bussare ». «Stanze», «porte»: termini che riflettono un modo molto italiano di intendere il rapporto tra impresa e politica. È un’altra prova del trasversalismo del sottobosco, tanto più che Scotti, un passato da democristiano di ferro, negli anni successivi transiterà nel Pdl e diventerà sottosegretario del governo Berlusconi.

Insomma, se a livello politico i due schieramenti sembrano prendersi a calci e pugni, nel bingo i loro sostenitori lavorano assieme. Almeno quando ci sono di mezzo gli affari. Nello stabile dove ha sede legale Formula Bingo si trova anche Italianieuropei, la fondazione dalemiana di cui parleremo più avanti. Allo stesso indirizzo c’è Reti, società di consulenza che l’ex consigliere politico di D’Alema, Claudio Velardi, ha costituito dopo essere uscito da Palazzo Chigi. Semplici coincidenze.

«Ma a chi è venuta questa bella idea di portarci il bingo in casa?» si chiede Bernardo Iovene di Report. E si risponde: «Alla Lottomatica, che è la società che gestisce il gioco del lotto, vale a dire una multinazionale del gioco d’azzardo. E al signor Consoli». Iovene rivolge la domanda successiva al diretto interessato: «A chi avete proposto il bingo?». Consoli risponde: «Dunque, all’allora ministro delle Finanze, che era Vincenzo Visco, e all’allora direttore dei monopoli Vittorio Cutrupi». Il cronista incalza: «È successo che degli operatori privati propongono al governo D’Alema questa idea. E D’Alema vede la possibilità di fare entrare dei soldi nelle casse dello Stato. Intanto il signor Consoli, da esperto, pensa di formare, insieme all’ex ministro Scotti, una società di consulenza per le sale bingo». Consoli capisce l’aria che tira e gioca d’anticipo: «Lei mi sta chiedendo dei D’Alema boys e tutte queste cose qua? Questo vuole ottenere? Sì, io quando ero ragazzo ero iscritto al Partito comunista, della gioventù del Pci. Avevo conosciuto D’Alema; se poi lei mi chiede: “Ma l’ha aiutata D’Alema?”, io le rispondo: “Assolutamente no”. Credo che lui abbia saputo dai giornali che mi occupavo di queste cose».

All’inizio Formula Bingo pensa di ottenere le concessioni in proprio. Poi costituisce Formula Bingo Servizi, che in pratica fornisce le sale pronte, chiavi in mano, ai futuri gestori. La società si propone agli imprenditori che vogliono avviare l’attività chiedendo 50 milioni di vecchie lire a sala e ottiene la consulenza per 214 sale su 420. Nessuno si sorprende troppo, visto che la società è competente, conosce a menadito le regole, ha i contatti giusti e si muove con grande tempismo. Il bando per l’assegnazione delle sale prevede che ogni società non possa superare la soglia del 10 per cento delle concessioni, quindi 42 sale. Ma per chi decide di puntare sulla loro gestione (con un ruolo di service provider, cioè di assistenza a chi ottiene la concessione) non esiste limite.

È il segreto del successo di Formula Bingo Servizi. Basta contattarla, essere disposti a pagare un anticipo e versare il resto in caso si ottenga la concessione. Alla pratica pensano i suoi consulenti: presentano un progetto su misura, lo seguono con plotoni di avvocati e poi allestiscono la sala e preparano il personale. Dopo aver ottenuto la concessione, il cliente deve solo continuare a pagare alla società l’1,5 per cento su ogni cartella venduta. Per tutta la durata dell’attività.

Dovrebbero vivere tutti felici e contenti. All’inizio va davvero così. Cinema, discoteche, balere e spazi pubblici vengono convertiti in sale per il bingo. E i miliardi – di lire – iniziano a circolare.

Compagni che giocano

Da una parte gli italiani sganciano il denaro, dall’altra le società vicine alla politica incassano. Tanto che qualcuno sospetta che nel bingo i partiti abbiano trovato (lecitamente, ma spregiudicatamente) una nuova forma di finanziamento. Soprattutto a sinistra. Perché non c’è soltanto Formula Bingo. Ci sono anche altre cordate che vedono tra i soci direttamente le sezioni dei partiti.

A Genova, Savona e La Spezia le federazioni sono proprietarie di sale per il bingo. Poca roba, presa singolarmente. Resta il fatto che subito dopo il 2000 c’è stata una vera e propria «colletta» tra le federazioni dell’allora Pds per «scommettere» sul tombolone del terzo millennio. È un complesso gioco di scatole cinesi che dalle federazioni arriva fino alle società che gestiscono i bingo. Nulla di illegale, ma chissà se gli iscritti Pds-Ds ne sono mai stati informati.

Tutto ruota intorno a due società, che rappresentano altrettanti rami dell’attività economica dei Pds poi diventati Ds: la Beta Immobiliare, che si occupa appunto degli interessi immobiliari, e la Alfa Finanziaria. Con sede a Roma in via Palermo 37, Alfa è in stato di scioglimento e liquidazione dal 2003. I soci sono ben 72, tutti o quasi impegnati per pochi spiccioli. Come il signor E.G., che ha versato due euro, oppure il signor V.P., che ne ha rischiati tre. Ma la grande maggioranza dei proprietari sono le federazioni del partito. Dalla visura della Camera di commercio risultano quelle di Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cesena, Crema, Fermo, Ferrara, Forlì, Genova, La Spezia, Livorno, Mantova, Milano, Modena, Napoli, Padova, Parma, Elba, Pisa, Prato, Reggio Emilia, Savona, Varese, Venezia. E ancora alcune federazioni regionali come quella del Molise. Le sezioni più piccole, come quella di Turriaco, partecipano con somme simboliche, 106 euro. Ma Genova ne sborsa 2866.

Un fenomeno del quale si è parlato. Ma poco. Forse perché quasi nessuno poteva scagliare la prima pietra. Tanti partiti hanno puntato sul bingo, soprattutto quelli che non potevano contare su un leader dal patrimonio sconfinato come Silvio Berlusconi. Accade a sinistra come a destra. Alcuni fedelissimi di Umberto Bossi hanno fondato la Bingo.net. Tra loro Maurizio Balocchi – poi deceduto – che per anni è stato il custode di tutti i conti e i segreti economici del Senatùr e del suo cerchio magico. Dal bingo rosso a quello verde, la sorte di quegli esperimenti è stata comunque la stessa: molte delle imprese sono finite in liquidazione molto presto, quando il gioco introdotto nella festa di Testaccio ha cessato di attrarre gli italiani. Formula Bingo, per esempio, è fallita nel 2004.