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La piccola grande vittoria del premio Nobel che può restituire speranza al dialogo

Gli ultimi mesi segnano per San Suu Kyi l’inizio di una nuova insperata primavera. Le elezioni suppletive rappresentano un test importante per il governo che dovrà provare agli osservatori occidentali la volontà di ripristinare la democrazia e di avviare le riforme. Sul piatto della bilancia la fine delle sanzioni economiche

Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione birmana e premio Nobel per la pace 1991, sarà probabilmente eletta al parlamento del suo Paese il 1° aprile. E la storia si prenderà una piccola, grande rivincita. Piccola, perché il ruolo che andrà a ricoprire non sarà quello di primo ministro che le sarebbe spettato dopo le elezioni del 27 maggio 1990, invalidate dai generali, che avevano attribuito una spettacolare vittoria (82 per cento dei voti) al suo partito, la Lega nazionale per la democrazia.

Grande, perché la “Lady” – come la chiamano 56 milioni di birmani – conquisterà finalmente un ruolo pubblico dopo aver passato quindici degli ultimi vent’anni (fino al 13 novembre 2010) agli arresti domiciliari nella sua casa in University Avenue sul lago Inya, al di là della cancellata e del filo spinato che la separavano dal suo popolo.

In tutti questi anni Aung San Suu Kyi, 66 anni, non ha smesso un solo momento di credere nella vittoria della democrazia e nella forza del dialogo. Anche se la fede incrollabile in questi valori ha comportato per lei enormi sacrifici nella vita personale e famigliare che il film di Luc Besson “The Lady” – nelle sale italiane dal 23 marzo – racconta con partecipata commozione grazie all’interpretazione esemplare, impressionante per la somiglianza con la vera Lady, dell’attrice malese Michelle Yeoh.

La vita di Aung San Suu Kyi è segnata dall’uccisione – il 19 luglio 1947, quando aveva solo due anni – del padre, il generale Aung San, vincitore delle elezioni per l’assemblea costituente che avrebbe traghettato la Birmania verso l’indipendenza, il 4 gennaio 1948, dall’impero britannico. Da bambina e adolescente segue la madre, ambasciatrice, in India e Nepal; nel 1969 si laurea a Oxford, poi lavora alle Nazioni Unite a New York.

Il punto di svolta e di non ritorno verso la normalità del quotidiano (vive a Oxford con il marito Michael Aris, professore di storia e hanno due figli, Alexander e Kim) avviene a fine marzo 1988 quando San Suu Kyi lascia la Gran Bretagna per tornare a Rangoon dove la madre è in ospedale per un infarto. È un momento di grande mobilitazione nella capitale birmana: gli studenti sono scesi in piazza per richiedere cambiamenti radicali, il generale Ne Win, al potere dal colpo di stato militare del 1962, rassegna le dimissioni. San Suu Kyi sente che non può sottrarsi all’eredità paterna e il 26 agosto 1988 infiamma il cuore di migliaia di militanti e cittadini parlando alla Shwedagon Paya, l’imponente pagoda dorata, fulcro della religiosità nazionale. La speranza in una rinascita democratica è però brutalmente repressa, la dittatura dei generali continua fra massacri e persecuzioni degli oppositori. Arresti domiciliari, sciopero della fame, i compagni di partito imprigionati: le sofferenze patite in patria si contrappongono, nella vita della “Lady”, agli onori tributati all’estero come il premio Sacharov per la libertà di pensiero nel 1990 e il Nobel per pace nel 1991. Affronta con coraggio prove durissime: la morte del marito – che non vede da quattro anni – nel marzo 1999, la lontananza dai figli.

Dopo le elezioni del 7 novembre 2010 (lei non può presentarsi e il suo partito le boicotta) è finalmente libera di uscire fra la gente. Gli ultimi mesi segnano per San Suu Kyi l’inizio di una nuova, forse insperata, primavera. Il disgelo fra il simbolo dell’opposizione e il nuovo corso del regime è consacrato nell’incontro del 19 agosto 2011 nella nuova capitale Naypydaw: sotto il ritratto dell’eroe nazionale Aung San siedono, per le foto di rito, una sorridente San Suu Kyi e un compiaciuto Thein Sein, l’ex generale che dal 31 marzo 2011, dismessa la divisa militare, è il nuovo capo dello Stato.

Le elezioni parziali del 1° aprile – saranno eletti 48 deputati su 664, in sostituzione di chi ha assunto cariche ministeriali – rappresentano un test importante per il governo di Yangon che dovrà provare agli occhi degli osservatori occidentali l’effettiva volontà di ripristinare la democrazia e di avviare le riforme. Sul piatto della bilancia c’è la fine delle sanzioni economiche che hanno mortificato la crescita del paese. Era stata la stessa Aung San Suu Kyi a chiedere al mondo occidentale il boicottaggio del turismo e le sanzioni come mezzo di pressione sul governo. In Myanmar molte cose stanno cambiando e in fretta, dalla libertà di stampa al diritto di sciopero e, dopo decenni d’immobilismo, i primi a stupirsene sono gli stessi birmani. La presenza della Lady in parlamento premia il suo coraggio e dà speranza al dialogo.