Cultura

L’unico scrittore buono è quello morto

Ci sono recensioni che non si può fare a meno di titolare come il libro che si va a recensire, e questo perché tutti gli altri titoli possibili non potranno mai reggere il confronto. È il caso de L’unico scrittore buono è quello morto (edizioni e/o), uno di quei titoli, appunto, che non passano inosservati, soprattutto – mi sia concesso – se si è, o si è provato a essere, uno scrittore. Ma anche se si è qualcos’altro, per esempio un lettore, meglio se compulsivo, o semplicemente un appassionato di letteratura, ma talmente appassionato da aver perso la bussola.

Allora si immagini di andare a zonzo fra gli scaffali di una libreria e di imbattersi nella copertina di questo libro. L’autore è Marco Rossari – scrittore, traduttore e cento altre cose – milanese, classe ’73. Si resta intrappolati – si diceva – nel titolo. Quindi si afferra il libro, lo si volta, si leggono cinque brevi apologhi. Il primo fa: “C’era uno scrittore che scriveva solo cose vere, ma tutti gli chiedevano cosa c’era di inventato. Non appena passò a scrivere cose inventate, tutti cominciarono a chiedergli cosa c’era di vero”.

Ecco, questo è il tenore di quello che ci aspetta se a questo punto decidiamo di passare alla cassa, per rinchiuderci poi in salotto nei giorni a venire a leggere le infinite variazioni sul tema che costituiscono la materia di questo gustoso libro. Non un romanzo, non un saggio e a rigor di logica neppure una raccolta di racconti. Verrebbe meglio da dire una miscellanea di arguzie, calembour, parabole surreali (o iperreali) sulla letteratura e i suoi eroi, veri o presunti. Una spassosa carrellata di istantanee in cui capita di incontrare mostri sacri (tra gli altri un Tolstoj che va alla radio e un Joyce che le prova tutte per trovare il suo posto nel pantheon delle lettere) e mostri e basta.

Un esempio: “«Légami» disse la fidanzata allo scrittore. E finalmente riuscì a leggerle il suo capolavoro”.

O ancora: “C’era uno scrittore che non veniva a capo della sua mastodontica opera capitale, così se la legò al collo e si buttò nel fiume. In ogni caso, sarebbe stato un flop”.

Roba così, insomma. Le parti che lo compongono sono estratti, per stessa ammissione dell’autore, di cose apparse in precedenza in una moltitudine di luoghi letterari – altri libri, blog, appendici, riviste – che qui si danno convegno per ritrovarsi in una forma compiuta. Il libro dunque, come scrive Rossari nella nota di chiusura, “è il plagio di se stesso”.

Va detto che la prosa di Rossari non si prende mai sul serio, e di questi tempi è già una gran cosa. Basti leggere la bandella della quarta di copertina in cui di solito compare la biografia dell’autore; qui c’è scritto: “Marco Rossari è nato”. E mi sembra un modo sintetico ed efficace per risolvere la faccenda.

Gusto del paradosso e vena umoristica a vagonate, quindi. Ma anche, e soprattutto, tragicomiche verità sul mestiere più ambito e più precario del mondo, quello dello scrittore.