Società

Senatori omeopatici

Una notizia che è rimasta sepolta da fatti di cronaca ben più devastanti: il 29 novembre 2011 è stata presentata in Senato la mozione 1-00505 avente per oggetto: “Procedure e requisiti per la registrazione semplificata dei medicinali omeopatici”. La mozione intende premere per accelerare l’adozione in Italia delle normative europee per la registrazione di nuovi farmaci omeopatici, correggendo quindi una delle nostre proverbiali inefficienze che, per una volta, andava a tutela del cittadino.

La questione è più delicata di come sembra: al “rimedio” omeopatico non vengono posti gli stessi criteri di validazione dei farmaci convenzionali, ed in particolare non è richiesta una dimostrazione di efficacia (tant’è che si richiede la “registrazione semplificata”): ci si accontenta di una certificazione di non tossicità e di un controllo sul processo di produzione. Il settore muove tanti soldi: oltre il 15% degli italiani fa ricorso occasionalmente o sistematicamente all’omeopatia, e infatti nella mozione presentata in Senato si legge testualmente: “il comparto dei farmaci omeopatici è costituito da circa 30 aziende, con un fatturato complessivo di circa 300 milioni di euro, che dal 1995 non hanno la possibilità di immettere nuovi farmaci sul mercato”. Oltre all’ovvio consenso politico indiretto, dell’elettore, ce n’è anche uno diretto del politico che potrebbe essere egli stesso in prima persona un utente.

Non voglio entrare con questo post in una analisi scientifica delle teorie omeopatiche, che sarebbe complessa: ho scritto un libro intero sull’argomento e non posso riassumerlo in poche righe.Voglio invece concentrare l’attenzione del lettore su un problema di grande rilievo etico che in genere non si affaccia nella discussione dell’omeopatia. Tutti sappiamo che una terapia è un atto medico e come tale richiede il consenso informato del paziente; la legge è giustamente molto severa con i medici che agiscono senza il consenso informato del paziente.

L’omeopatia è una teoria medica codificata tra la fine del ‘700 e l’inizio dell’800 da Samuel Hahnemann e si basa su ipotesi settecentesche oggi completamente abbandonate: la forza vitale, le influenze “astrali o telluriche”, l’azione a distanza, etc. In mezzo a questo ciarpame ideologico non trovano posto i concetti, peraltro già accettati nel ‘700, di nosologia e diagnosi. Hahnemann ad esempio aveva scritto: “ogni caso di malattia che si presenta deve essere considerato (e curato) come un caso peculiare che non si è mai verificato prima nella stessa maniera e nelle stesse circostanze, come in quelle attuali, e che non si verificherà mai di nuovo esattamente nello stesso modo!” (citato in A. Bellelli “La Costruzione dell’Omeopatia”, p.17). L’idea di Hahnemann non è morta ma è ancora attuale oggi: l’omeopata Bill Gray nel libro “Homeopathy: science or myth?” ha scritto: “L’omeopatia è particolarmente appropriata per pazienti nei quali una diagnosi non può essere stabilita. Il vantaggio dell’omeopatia deriva dalla sua individualizzazione del rimedio all’unicità dei sintomi del paziente, che supera completamente la necessità di una diagnosi” (citato in A. Bellelli “La Costruzione dell’Omeopatia”, p.52).
E’ chiaro che l’omeopatia ha consenso: i pazienti vanno per loro intenzione dall’omeopata a farsi curare; ma è informato questo consenso? quale informazione riceve il paziente dall’omeopata? Non una diagnosi o una prognosi; non una corretta descrizione della sua malattia. Un paziente potrebbe avere un tumore operabile, ma l’omeopata non sentendosi tenuto all’obbligo di fare diagnosi potrebbe curarlo con un rimedio che causa sintomi “simili” a quelli del paziente, far passare del tempo inutilmente e ritardare la diagnosi medica convenzionale fino a quando il tumore è diventato inoperabile; e questa non è teoria, è realtà dimostrata.

Sui farmaci omeopatici, oggetto della mozione 1-00505, si pone lo stesso problema della diagnosi: quale informazione potrà dare il medico al paziente, affinché questi possa esprimere il suo valido consenso alla terapia? E’ perfettamente noto che il proving, la metodica omeopatica per accertare i “poteri curativi” dei farmaci, è inadeguato e inaffidabile: i sintomi attribuiti ai farmaci, uguali a quelli che essi dovrebbero curare sono confusi e irriconoscibili.