Cultura

Vanity press: pubblico, dunque sono

Impazza in rete il self-publishing: pochi libri interessanti e qualche raggiro in nome dell'ego. E gli stessi editori online ammettono: "Capolavori da qui ne sono passati pochi"

“È bello scrivere perché riunisce due gioie: parlare da soli e parlare a una folla”. Questo passo del diario di Cesare Pavese è diventato celebre: si vede un po’ dappertutto, anche su magliette e segnalibri. Lui il mestiere di scrivere lo conosceva bene (“quando scrivo sono normale, equilibrato, sereno”) ed è vero, è una gioia. Qualche volta una terapia, altre volte una ginnastica, spesso un modo per esplorare a fondo il proprio mondo interiore. Naturalmente non è detto che tutto questo sia di qualche interesse per gli altri. In rete impazza, e non da oggi, il self-publishing. Siti, ma anche editori veri e propri, che propongono la pubblicazione di romanzi e saggi con un “contributo” a vario titolo. È una vecchia storia, immortalata splendidamente nel Pendolo di Foucault, dove Eco sbertuccia gli Aps (Autori a proprie spese) e gli editori senza scrupoli come il suo Manuzio. Scrittori si nasce: ed io lo nacqui, modestamente. Per diventarlo, almeno apparentemente, oggi basta un clic. Ilmiolibro.it è un portale del gruppo l’Espresso dove puoi fare di tutto: stampare il tuo romanzo (più o meno 7 euro a copia) e metterlo in vendita attraverso il sito. Grazie a un accordo con Feltrinelli puoi perfino arrivare in libreria con il print on demand (stampa su richiesta): il sito ha oltre 140 mila utenti registrati, 16 mila opere pubblicate. I diritti sono tuoi: se vendi ci guadagni tu.

L’ANNO scorso ilmiolibro.it ha organizzato un concorso: hanno partecipato 2.600 romanzi, selezionati dalla Scuola Holden. Ha vinto Miradar di Ilaria Mavilla che uscirà quest’anno da Feltrinelli. Non per fare il solito Bertoncelli avvelenato da Guccini, ma dalle prime venti pagine Miradar non sembra proprio imperdibile. Ed è una cifra costante nel mare di libri o aspiranti tali che circola in Internet: capolavori pochi. Giorgia Grasso, direttrice editoriale de Il filo di Arianna/Albatros, spiega che all’80 per cento dei loro autori viene chiesto un contributo. “Facciamo una selezione ogni due mesi, su due-tremila manoscritti che arrivano”. Sottoscrivi un contratto, il che significa che loro te lo distribuiscono ma si tengono i diritti. Spendi 2mila euro, quello che invii viene più o meno pubblicato così com’è: “Se vuoi diventare uno scrittore è meglio che non ti rivolgi a noi, ma a una scuola di scrittura”, spiega Grasso. Lulu.com, colosso mondiale del self-publishing (in edizione italiana dal 2006), sforna 20mila titoli al mese e ha 1,1 milioni di autori in tutto il mondo. Eppure, ha detto il fondatore Bob Young, “non ci è mai capitato un best-seller di narrativa. Il nostro best-seller è un libro che spiega come usare un software: costa 99 dollari e l’autore guadagna circa 100 mila dollari l’anno”. E ha aggiunto: “Da questa esperienza ho imparato a stimare gli editori perché ho capito che fanno la differenza”. È un business, ma ha poco a che fare con l’editoria.

D’ACCORDO: Moravia pubblicò a sue spese Gli indifferenti, Pasolini Ragazzi di Vita, Svevo Senilità. E anche oggi ci sono storie fortunate, come quella di Amanda Hocking, John Locke o di Eloy Moreno (il suo autopubblicato Ricomincio da te è uscito ieri per Corbaccio, dopo aver scalato le classifiche spagnole). Rara avis però e bisogna saperlo. Pubblico, dunque sono è un’equazione sciocca quanto falsa. La rete, il posto della libertà e delle possibilità, genera pericolose illusioni. Qualche volta a un prezzo maggiore del disinganno, soldi che rassicurano l’ego ma sono buttati. Se ti rifiutano un manoscritto forse hai incontrato degli incompetenti: o forse no. Le sindromi da genio incompreso dilagano. Un buon romanzo nasce dal talento di chi lo scrive, da molti libri letti prima, da un lavoro di revisione che, non sempre ma spesso, avviene nelle officine editoriali. Essere bocciati serve, come riscrivere gli articoli di giornale o i libri. Gli editori tradizionali però sono in ascolto, pur consapevoli che forse non sarà con un libro auto-pubblicato che faranno le prossime fortune. Riccardo Cavallero, direttore generale di Mondadori libri, racconta: “In italiano vanity publishing e self publishing si traducono nello stesso modo. Ma sono due cose diverse, e come al solito l’inglese, nell’espressione vanity press, coglie immediatamente il senso dell’atto. Scrivo un libro, me lo pubblico e sono contento. Con la rete il self-publishing, che è un po’ il Facebook della scrittura, contribuisce a formare una comunità di amanti dei libri. Da questo mondo si può imparare. Per questo Mondadori sta lavorando per creare, entro sei mesi, una piattaforma su cui chi scrive si possa pubblicare e confrontare con altri lettori”. Il gruppo Gems organizza da tre anni il torneo letterario Io scrittore (le iscrizioni per questa edizione si sono appena aperte). Il presidente Stefano Mauri puntualizza la situazione con una metafora: “Uno scrittore contrattualizzato da un editore che vende bene il suo libro vince un campionato. O magari le Olimpiadi.

CHI ARRIVA primo a un concorso e poi pubblica, come nel caso di Io scrittore, vince la Stramilano. Chi si autopubblica è uno che va a comprarsi la coppa in negozio”. Oliviero Ponte di Pino, responsabile editoriale di Garzanti, ha passato la vita in mezzo a libri e manoscritti. “Se tu mi paghi per pubblicare il tuo libro, significa che io non ho più necessità di venderlo”, sorride. “E soprattutto dietro un romanzo non c’è solo il suo autore, ci sono più persone che ci hanno lavorato”. La pensa così anche Evelina Santangelo, che di mestiere fa, appunto, la scrittrice (Einaudi): “La scrittura d’invenzione è un linguaggio, oltre che un modo, una forma per misurarsi con il proprio tempo. Come tutti i linguaggi va studiato e affinato, confrontandosi con i maestri, cercando di comprendere quel gesto. Il talento da solo non basta, è una potenzialità. Ciò che conta non è vedere il proprio libro impaginato, ma il proprio lavoro compiuto”. Un poeta un po’ dimenticato, Camillo Sbarbaro, diceva: “Si comincia a scrivere per essere notati, si seguita perché si è noti”. E Leo Longanesi: “L’arte è un appello al quale molti rispondono senza essere chiamati”. Scrivere male non è né un diritto né un privilegio. Pare se ne abusi molto però. Così la gioia di cui parla Pavese svanisce: per chi scrive, figuriamoci per chi legge.

Da Il Fatto Quotidiano del 14 gennaio 2012