Società

Un racconto di Natale: <br/>la vigilia alla posta

Vigilia di Natale: come al solito, mi sono ridotto all’ultimo momento a fare i versamenti che mettono in pace la coscienza a buon mercato, se si è pronti a spendere un po’ d’ipocrisia: l’Unicef, Amnesty, Medici senza frontiere, la lotta contro il cancro e compagnia bella. E’ sabato e, per essere a Roma, fa quasi freddo: spero che in posta ci sia poca gente e mi presento all’ufficio vicino a casa, a due passi da via Merulana, alle 9 del mattino. In effetti, c’è poca gente: davanti a me, invece della solita folla, solo una decina di numeri. Mi siedo e aspetto: organizzato, ho già comprato i giornali, così ho da leggere, e non ho ancora compilato i bollettini. Meglio che mi sbrighi, perché magari mi chiamano prima che abbia finito.

Però, i numeri vanno avanti con la lentezza della carrozza dell’Innominato. Che accade? E già, c’è poca gente, ma c’è ancora meno personale: solo due sportelli aperti. Le impiegate, poi, non sono proprio in gran forma: stare lì al lavoro la vigilia di Natale, e di sabato per di più, quando magari hai ancora compere da fare e stai a pensare ai pacchetti da preparare e alla cena da mettere in tavola… Guai a chi si presenta con il pacchetto da spedire non fatto su a regola d’arte o con il bollettino mal compilato, anziano, suora o immigrato in difficoltà con l’italiano che sia.

Fortuna che, a un certo punto, compare una responsabile: uno si aspetta che il ritmo di lavoro aumenti, se non altro per dare un po’ di fumo nell’occhio. Errore! La responsabile, consapevole della cattiva disposizione delle sue colleghe, si preoccupa solo di tenerne su il morale: “Un caffè?, o magari un the?”. Si apre un dibattito, cui finiscono per partecipare i clienti in attesa, se non altro nel tentativo di tagliare corto. Alla fine, la responsabile parte per il bar con l’ordinazione ben in testa. E la litania delle chiamate può riprendere.

Tocca a me. Ho un sacco di bollettini: chi sa che lavata di capo mi prendo adesso. L’impiegata, la più brusca, mi squadra con disapprovazione, biascica giaculatorie contro il destino baro (del tipo “Che me tocca fa’”), poi mette sotto il primo formulario. Un attimo di esitazione: il volto si distende, mi guarda meno ostile. E’ quello contro la sclerosi multipla: “questo lo faccio anch’io”, dice; scorre gli altri: “Sono gli stessi che faccio io”. E sorride persino: ci siamo scoperti più buoni insieme. E’ andata, ho finito, vado: “Buon Natale”, ci diciamo all’unisono. E lo scorrere dei numerini diventa, per un istante, più rapido e più leggero.