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Rock e tatuaggi: l’eredità americana in Iraq

Ovunque vadano, qualcosa lasciano, a parte distruzioni, lutti, sofferenze. Invasori o liberatori che siano, è una regola che vale nei secoli per chi s’installa in un Paese con la forza delle armi. Se ci resta a lungo, lascia, magari, la lingua, l’organizzazione sociale e l’ordinamento istituzionale – pensiamo ai romani e, poi, agli arabi; se ci resta per poco tempo, qualche moda passeggera, qualche abitudine alimentare e consumo culturale adattati ai gusti locali. Oggi, i soldati americani, rispetto alle potenze dei tempi andati, possono contare sull’impatto massiccio dei media di massa, sull’infiltrazione di una cultura che è pervasiva e contagiosa a livello globale, prima ancora del loro arrivo.

Succede, magari, che i militari a stelle e strisce si dimentichino di lasciarsi dietro proprio quello che erano venuti a portare: così, in Iraq, e presto in Afghanistan, se ne vanno senza avere solidamente impiantato quella democrazia che erano partiti per esportare. La democrazia, però, non è qualcosa che attecchisce con le armi e non prende neppure ovunque allo stesso modo: in Europa, dopo la Seconda guerra mondiale, ce la lasciarono, ma in fondo c’era già prima: loro erano venuti per ristabilirla, dopo l’esperienza devastante e aggressiva dei totalitarismi nazista e fascista; in Giappone, e più tardi nella Corea del Sud, se la lasciarono dietro.

Bushra Juhi, giornalista dell’Ap, racconta, in un reportage da Baghdad, che, dopo 8 anni di presenza sofferta e contrastata – quasi 4.500 caduti, altri 500 circa della coalizione -, le truppe statunitensi che stanno partendo dall’Iraq lasciano dietro di sé una democrazia zoppicante, e che s’ignora se e come e quanto sopravviverà, e “amari ricordi di guerra”. Ai più giovani, restano “musica rap, tatuaggi e slang”. E chi scrivesse oggi da Kabul potrebbe offrire testimonianza analoga.

In Europa, dopo il ‘45, gli americani ci lasciarono la Coca Cola, il boogie boogie, i jeans – e ancora resistono, adattati ai tempi. In Vietnam, da dove scapparono dopo dieci anni di conflitto e oltre 58 mila perdite, il lascito, invece, fu poca cosa, o almeno rimase invisibile per molti anni. Ma sotto sotto i germi dell’americanizzazione hanno funzionato se oggi Saigon, ribattezzata Ho Chi Minh City, è la più americana delle città vietnamite e, probabilmente, non piacerebbe all’eroe dell’indipendenza di cui porta il nome.

Le dinamiche e le geografie dell’esportazione militare di mode e costumi sono spesso indecifrabili. Pensiamo allo sport, che non ha risvolti politici diretti. Gli americani hanno lasciato in Giappone e nella Corea del Sud il baseball, che ha pure attecchito ad Anzio e in Romagna e in Olanda, ma altrove in Italia o in Europa poco o punto, mentre non sono riusciti a innestare, in nessun Paese, il loro football (a essere sinceri, uno dei riti più noiosi ed esoterici fra i giochi moderni), mentre il calcio dilaga ovunque nel Mondo, nonostante gli inglesi, all’epoca delle colonie, promuovessero più l’aristocratico cricket che il popolare soccer. Il baseball, poi, ha sue ‘ basi ’ anche in Paesi ‘ anti-americani’, come Cuba e il Venezuela, dove era però arrivato prima delle ‘rivoluzioni’ castrista e chavista.

Certo, rispetto a 60 anni or sono, oggi è molto difficile distinguere l’influenza indotta dalla presenza militare da quella, più sottile e pervasiva, della preesistente colonizzazione culturale compiuta dalle produzioni ‘ made in Usa’: chewingum e Coca Cola, jeans e t-shirt, musica, film e serie tv sono testimoni universali e indelebili d’una avvenuta conquista.

Juhi ci racconta Baghdad prima della partenza, il 31 dicembre, dell’ultimo soldato. La loro influenza è fortissima sui circa 16 milioni di iracheni under 19 (la metà della popolazione, 8 milioni nati dopo l’invasione), calcola Brett McGurk, ricercatore del Council on Foreign Relations di New York e prima consigliere dell’Ambasciata Usa in Iraq. Teenager che si chiamano punky o hustlers e hanno abitudini e consumi del tutto simili a quelli dei loro coetanei americani o europei: ascoltano 50 Cent o Eminem, guardano i vampiri di Twilight, mangiano pizza e hamburger, girano sui rollerblade e si rasano i capelli alla marine. Mode che resisteranno, o traballanti come la democrazia?

Il Fatto Quotidiano, 30 novembre 2011