Cronaca

Le metamorfosi di Michele Misseri

Chi non ricorda lo zio orco Michele Misseri nei giorni successivi alla sparizione di Sarah (quella ‘h’ mi ha sempre fatto sorridere, dava un’esoticità ruspante al nome della ragazza)? Sembrava strappato dalle viscere della terra, barba incolta, arruffato, un cappellaccio da spaventapasseri in testa, la camicia a quadri aperta sulla canotta sudaticcia, mani callose e unghie nere.

Insomma, non era un bel vedere. Intervistato ieri sera a Porta a Porta è un altro uomo. Criminologi e psichiatri partecipanti alla trasmissione rilevano e sottolineano il cambiamento: più sicuro di sè, ostenta disinvoltura, quasi arrogante.

Intercettato dai cronisti il giorno prima all’uscita della Procura, Michele è lindo, scozzonato, barba fresca di rasatura, pettinato, occhiali cerchiati d’oro quasi da intellettuale raffinato, un giubbotto di jeans sotto una camicia stirata e qualche chilo in più. Ho faticato a riconoscerlo, anzi a primo acchito ho pensato fosse il suo avvocato. Michele ha un’aria più serena e comunque ben lontana dalla confusa apprensione con cui si mostrava le prime volte alle telecamere. Allora farfugliava in dialetto, adesso risponde garbatamente in italiano. Il tutto sempre impregnato (non dimentichiamolo) nella drammaticità di un uomo che ribadisce fermamente la propria responsabilità di un gesto efferato.

A chi dobbiamo questa metamorfosi? Le carceri italiane sono forse diventate un modello rieducativo? La cella di isolamento fa bene all’ego? Passato agli arresti domiciliari, ancora dà i brividi l’altarino che Misseri ha improvvisato nel garage dove si sarebbe consumato il delitto, con la foto di Sarah circondata da immaginette sacre. Rende attoniti la santificazione della vittima da parte del suo aguzzino, fa notare Bruno Vespa. Vengono in mente le pagine di Primo Levi in Se questo è un uomo, laddove descrive con eccezionale limpidezza le pulsioni di un detenuto che aveva trovato un proprio equilibrio, un benessere, proprio in una situazione estrema come quella di un campo di sterminio. Constatiamo ancora una volta che l’adattabilità dell’animo umano non conosce né sbarre né chiusure.

di Januaria Piromallo