Cronaca

Perché mandare don Gallo al massacro?

Ieri sera nella trasmissione “In Onda”, il talk-show de la Sette, abbiamo assistito in presa diretta al massacro mediatico di don Gallo, ad opera di interlocutori altrimenti improbabili; quali un monomaniaco fondamentalista del mercato, come il rieccolo malagodiano Antonio Martino, coadiuvato dal co-conduttore Nicola Porro, un perfido finto pacioso molto jet-set del Salento, berlusconiano mordi e fuggi di scuola Il Giornale.

I fan a prescindere del prete genovese probabilmente non se ne sono accorti, ma l’impressione che uno spettatore non pregiudizialmente schierato poteva ricavare dalla discussione era quella di due persone responsabili (i liberisti Martino e Porro), che esponevano problemi concreti, e un contraddittore in affanno (il no global Gallo, definito benevolmente “pretacchione” dal Milton Friedman de’ noantri Martino) aggrappato a genericità buonistiche e nuvole evangelico-sinistresi. Che – tra l’altro – cadeva in tutte le trappole sparse dai navigati furboni che lo attendevano al varco. Come quando il Porro, con l’accenno di birignao che fa neoborghese (anche mentre si ricatta Emma Marcegaglia?), gli chiedeva “qui chiudono le fabbriche, quali sono le sue ricette?” e il religioso non riusciva a divincolarsi, sperduto in appelli al volontariato e alla piazza. Se fosse stato un po’ più abile, avrebbe potuto replicare all’americanista un tanto al chilo con una battuta americana. Quella di John F. Kennedy, quando Richard Nixon gli pose la stessa questione: “al governo ci siete voi, fatemici andare e allora vi farò vedere”.

Santa ingenuità! Di fatto l’anziano “don” è avido di platee e l’ennesimo invito in televisione ha funzionato certamente da richiamo irresistibile. E fin qui è solo un problema suo. Purtroppo la retorica neofrancescana con cui si esprime funziona al meglio in un contesto orientato a proprio favore. Mentre, se deve misurarsi con ragionamenti (soprattutto se di provocatori volti al male o di ideologi pervicaci), rivela la fragilità delle dotazioni argomentative. E questo diventa un problema non più solo suo. Visto che consente il passaggio indenne di vere e proprie mascalzonate intellettuali. Come quando l’ineffabile Martino riproponeva la corbelleria che non esisterebbe un rapporto squilibrato di interdipendenza distributiva tra ricchi e poveri; mostrava senza arrossire la mela avvelenata per cui la ricchezza va a vantaggio di tutti; riproponeva l’insopportabile logica da dama della San Vincenzo che destinerebbe il benestante caritatevole a soluzione ottimale delle ingiustizie materiali.

Un rancido ciarpame, che ancora si poteva sopportare all’epoca del capitalismo manifatturiero, in cui la produzione industriale aveva interesse ad allargare la sfera del consumo coinvolgendo gli strati meno abbienti della società; che non funziona più in epoca di capitalismo finanziarizzato (creazione di denaro a mezzo denaro), in cui ai ricchi non può fregargliene di meno dei poveri, degli esclusi.

Ma tutto questo don Gallo non lo sa. Come non sa che le privatizzazioni sono l’astuzia (anche italiana: autostrade, telefonia, sanità, scuola, acqua…) grazie alla quale è stato svenduto il patrimonio pubblico a quei finanzieri e banchieri che, alla prima difficoltà, strillano reclamando interventi di salvataggio da parte dello Stato.

Per questo è successo quanto non doveva succedere: lasciato tracimare, il duetto Martino e Porro ha fatto un figurone. Sono sembrate persone affidabili.

Sarebbe ora – invece – che la nullaggine di questi fini dicitori di canzoncine che hanno portato il mondo sull’orlo della catastrofe, la malafede e le acrobazie mistificatorie di siffatti supporter finto-indipendenti del berlusconismo fossero smascherate. Sono troppi anni che la guerra non dichiarata dei ricchi contro i poveri è stata avvolta nelle chiacchiere propagandistiche che disegnano a vantaggio del privilegio (e a tragico svantaggio degli altri) un mondo che non è virtuale, è fasullo. Ma sono anche troppi anni che il compito di svelare l’inganno viene delegato alla declamazione retorica. Talvolta al narcisismo innocuo del protagonismo.

Certo, il Vaticano è schierato dalla parte dell’inganno promosso dagli espropriatori di ricchezza e di verità. Per cui un prete che dice parole non ortodosse può venire utile all’opposizione, nella logica (diciamolo, un po’ staliniana) del “compagno d strada”.

Ma bisogna rendersi conto che tale prete è un simbolo, non uno speaker.

I simboli non parlano, svolgono funzioni metalinguistiche. La ragione per cui vanno preservati. Non vanno mandati al massacro. Anche loro malgrado.

Altrimenti mezze calzette come Porro e Martino fanno la figura dei colossi.

Un’ultima considerazione, più generale. In questi lunghi anni, mentre avveniva la sistematica devastazione della società italiana a ogni livello, la denuncia di singoli misfatti e reati non è mai mancata (tanto che la cronaca giudiziaria è diventata un vero e proprio genere letterario); ha latitato – invece – la comprensione “sistemica”: l’analisi ricostruttiva delle strategie e dei processi in atto (dal fenomeno Berlusconi come mutazione genetica del sociale alle reali poste in palio). Con almeno due effetti gravissimi: si è reso possibile presentare come “normale” ciò che normale non era; il dibattito pubblico è degenerato in tifo da stadio, in cui si sfidano opposte fazioni.