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Londra: la città dei «Magnati in capa»

Vi assicuro che non è facile, almeno i primi tempi, andare in giro per Londra senza farsi intimidire dall’assedio continuo di pubblicità maligne e angoscianti, diffuse in ogni angolo di strada e spazio pubblico.

E ha ben ragione il buon Bellociore, compagno criticone e a tratti eccessivamente severo, che dopo una tre-giorni qui si dichiarò nientemeno che «violentato» dalle forme di controllo sociale che ovunque si esercitano – anche se lui aveva esteso la definizione ad esperienze urbane assai meno sottili. Basta allontanarsi dalle aree più pittoresche ed immergersi nel flusso turbolento della City, per notare l’incessante bombardamento di advertising commerciali, statali e para-statali, nazionali, regionali, sanitari, burocratici, progressisti, eccetera.

Facile prendersela con le famigerate Cctv – le telecamere che sono ormai divenute simbolo di Londra tanto quanto il Big Ben, la ruota panoramica e le chiazze di vomito per strada –, ma non sono quelli gli unici sguardi – nascosti – che sorvegliano i sudditi di Sua Maestà. L’essenza del controllo è visibilissima agli occhi, ed è tutta nei cartelloni che si vedono sulle pareti della metro, sulle banchine dell’autobus, dentro i taxi, negli uffici pubblici. Si da il caso che allo Stato stia a cuore la tua salute e alle corporation il tuo portafogli, e fin qui ci siamo, ma cosa s’nventano per farti fare come dicono loro?

Un giorno, mentre aspetto l’autobus, mi sembra di avvertire una presenza immota alle mie spalle, che mi osserva con occhi sbarrati: trattasi di un giovane black british, disteso sull’asfalto, con gli occhi sbarrati – maestria di qualche designer: l’effetto era davvero realistico – accompagnato da una sentenza: «Don’t let your friendship die on the road», non lasciare che la tua amicizia muoia sulla strada. E una ragazzina lo stringe a sé, disperata. Quell’immagine conteneva un monito: attenti quando attraversate.

Faccio altri due passi, e un cartello in metropolitana mi accoglie con un orwelliano: «Se vedi qualcosa di sospetto, dillo alla polizia», con tanto di occhio stilizzato che funge da palla per un grande esclamativo (!).  Salito sul treno, c’ho dinnanzi il volto paonazzo e cadaverico di un uomo, al cui fianco si può scorgere un epitaffio: «Ho avuto un incidente in moto. Avevo perso conoscenza. Ho smesso di respirare. Eppure stavo per riprendermi. Tutto ciò di cui avevo bisogno era qualcuno che sapesse di pronto soccorso. Per rimettere in funzione il mio cuore. Per darmi una chance di vita. Ho aspettato… Ho aspettato… E ho aspettato…» Firmato: St. John’s Ambulance.

Ma il capolavoro del sindaco Boris è forse un altro: l’urlo disperato di una ragazza, che emerge caravaggescamente dall’ombra, con le lacrime agli occhi, e quella scritta a caratteri cubitali: «No, please, no, please, stop…» chiaramente un tentativo di stupro. Che si conclude con: «Non prendete taxi senza prenotarli». Terrore come tattica persuasiva, ma anche maniera per far rivivere esperienze traumatiche a chi le ha vissute per davvero. E infatti in molti hanno protestato, indignati.

Ma non è ugualmente terrorizzante, pur senza volerlo, quella scritta che proclama: «A Dj saved my life», e tu pensi a qualche evento musicale, ma si tratta invece della campagna di reclutamento volontari della polizia – «Non importa se il tuo mestiere implica mixare dischi, drinks o cemento, vieni a far parte della squadra…»? E quell’Iggy Pop che si presta a fare da testimonial per una pubblicità di assicurazioni? O quel cuoco dalla faccia cretina che gira con uno scooter pieno di capicolli e soppressate, e che si fa chiamare Jamie’s, come un brand vivente?

Volevo intitolare il pezzo «Controllo e terrore», ma non credo renda bene l’idea. Mi viene piuttosto in mente l’espressione napoletana «magnare in capa», ovvero un atteggiamento petulante e paternalistico verso qualcuno. Affrontare, tutti i giorni senza pause, quella forma raffinata di fascismo di cui parlava Godard – il messaggio pubblicitario come richiesta di consenso per lo stato di cose presente, come un’attribuzione divina – è un compito stoico da «magnati in capa». E chi ne sopravvive o riesce ad opporvisi va sicuramente lodato.

di Paolo Mossetti, scrittore, nato a Napoli nel 1983, tra i fondatori dei gruppi attivisti Il Richiamo e Through Europe. Collabora con ‘Lo Straniero’, ‘Nazione Indiana’, ‘Rolling Stone’. Vive a Londra.