Saturno

La nostra è un’epoca barocca

Se è vero che i canoni del pensiero sono ciclici e che il Rinascimento italiano aveva un suo precursore nel rinascimento ateniese dell’età classica, allora la nostra epoca è decisamente barocca.

Barocco è internet, che si ramifica in mille pagine e si aggroviglia da un link all’altro in una rigogliosa quanto inconcludente giungla di informazioni. Andiamo di sito in sito come di balconata in balconata negli affreschi di Andrea Pozzo e dentro ogni cielo vediamo aprirsene ancora un altro. Spegniamo il computer credendoci informati. Siamo invece frastornati. Il sapere non esiste, o meglio è ridotto alla sua ricerca.

L’attualità è una natura morta quotidianamente ricomposta. Al posto di fiori, frutta e selvaggina, il nostro quadro barocco mette in scena notizie che durano una fiammata, scandali che di ora in ora si dissolvono come le ceneri del vulcano islandese, proclami che sfumano in smentite, ore fatali senza sosta rimandate. Sul tablet, sul computer e sul palmare vediamo sempre lo stesso schermo, in un formicolare di icone come di putti e se ce ne manca anche solo uno ne sentiamo il vuoto.

La scienza ci spalanca continuamente nuove porte, o meglio nuovi passaggi, dove ci inoltriamo illudendoci di sbucare infine nel paradiso umano della definitiva conoscenza. Invece ci ritroviamo nuovamente legati, e più in corto, perché la corda ci si è attorcigliata al palo. Il lavoro che un tempo Gianni Rodari descriveva così nitido nella sua poesia dei mestieri, oggi è una concrezione fumosa di trompe l’oeil. Dove nell’asciutto Dopoguerra c’era la colonna dritta del fornaio, del muratore, del contadino, oggi c’è la selva di colonne tortili dei lavori a contratto, i curriculum a singhiozzo, gli stage, gli eterni tirocini, i call-center dove il fine è il chiamare, non il rispondere. La società multietnica scardina la prospettiva lineare delle nazionalità e delle lingue e ci abbandona in una ressa senza contorni, che rifiuta le differenze non per scelta ma per incapacità di recensirle, tante ce ne sono, come le foglie, le teste e le figurine brulicanti degli altari della chiesa di São Roque a Lisbona.

Nel mondo globalizzato trionfa la libertà ma anche lo smarrimento e nei giornali i nomi delle località turistiche alla moda si mescolano a quelli delle battaglie delle nostre cento guerre, non più poche ma mondiali, bensì tante ma locali. Come se anche le guerre oggi rispondessero a un nuovo imperativo di regionalismo: guerre di prossimità, a misura d’uomo. Nulla si compie, nulla è finito in sé ma rinvia a qualcos’altro. Dalla mancata crisi di governo alle incompiute elezioni, da una sentenza all’altra delle decine di processi che seguiamo come telenovelas su giornali e televisione. Mentre le intercettazioni di uno scandalo si accavallano a quelle di un altro e prima o poi certamente salterà fuori una chiamata da Bisi a Ruby, i veri perdenti sono quelli che nessuno ha mai sentito perché non stavano al telefono quel giorno a quell’ora.

Diciamo che rimpiangiamo i valori ma ognuno i suoi, condanniamo il relativo ma affonderemmo come il Titanic se ci aggrappassimo all’assoluto. Abbiamo sbaragliato le categorie del sesso e proprio come gli angeli dei Carracci non ci distinguiamo più in maschio e femmina, mentre anche il padre e la madre vacillano. Perfino lo sport ha perso il suo sobrio monolitismo e oggi ci pretendiamo esperti non più solo di calcio e Formula Uno, ma anche di nuoto e scherma, di tennis e vela, di rugby e curling. Nelle immagini televisive sembrano sempre gli stessi spalti, lo stesso pubblico assoldato per tutte le gare, professionisti del tifo, di nuovo come cori di santi volteggianti. L’arbitrario, l’indefinito, il provvisorio, il pullulare di folle indistinte è il nostro orizzonte e da nord a sud, da est a ovest, non c’è uno straccio di neoclassico in vista.