Cultura

9 canzoni 9… che fine ha fatto David Bowie?

In un periodo in cui la musica fatica a celebrare se stessa, si prova a rivolgere lo sguardo ai “grandi vecchi” e così, tra una celebrazione (vedi il settantesimo compleanno di Bob Dylan) e un grande ritorno (quello di Paul Simon), si scopre che nel 2011 a marcare visita è proprio il Duca Bianco, alias David Bowie.

Se proprio vogliamo dirla tutta, sono anni che l’artista non si concede: l’ultima intervista è solo un ricordo, così come lo sono le apparizioni in pubblico; se poi provassimo a concentrarci sulle uscite discografiche – considerando la scarsa ispirazione con la quale è stato concepito Reality nel 2003 – per ascoltare una canzone degna della grandeur del suo nome, bisognerebbe attingere al disco-live (2010), uscito a supporto dell’ultimo tour risalente al 2004. Un album meraviglioso che suggella un tour epocale, con Rebel Rebel in apertura e a seguire tutte le canzoni di una carriera stellare, capace di illuminare a giorno il firmamento della musica rock.

Piano con le esagerazioni. Esistono due correnti di pensiero per definire la caleidoscopica figura di David Bowie: la prima è strettamente legata al suo valore indiscutibile, la seconda invece è maggiormente incline a metterne in discussione il mito.

Ma vediamo di dare voce alle due teorie, le quali – ovviamente – sono nettamente contrapposte ma come spesso accade in questi ambiti, giungono (forse) alla stessa conclusione.

Facciamo un passo indietro, era il 1967 e l’underground musicale che agitava i bassifondi della musica d’Oltremanica esplodeva nei colori scintillanti della psichedelia. “Bowie è tra le figure emergenti di quel periodo, – urlano a gran voce i suoi sostenitori – ai tempi, era già controcorrente! Diede alle stampe una prima raccolta di splendide folk-song, al contempo si preparava a lanciare su scala mondiale uno stile unico e assoluto, secondo il quale la musica incontra il cinema che a sua volta diviene teatro e quindi arte dei mimi!”.

Detta in questo modo parrebbe avanguardia pura, diluita dentro un effetto domino dirompente. Ma una voce dal pulpito è pronta immediatamente a ribattere: “Ma nemmeno per sogno! Nel 1967 <Quello> sbarcava il lunario attraversando miseramente il manierismo dei gruppetti rythm and blues dell’epoca, scopiazzando Dylan e compagnia bella! E poi, l’arte a cui si fa riferimento, – conclude il detrattore con una certa soddisfazione – la apprese da Lindsay Kemp, o meglio, gliela rubò, per farne un assurdo prodotto di consumo!

Provando a mantenere la calma e facendo anche un respiro lungo è possibile orientare le nostre attenzioni verso gli anni 70, cercando di mettere d’accordo gli uni con gli altri.

Lo specchio patinato delle nuove tendenze agitava il mondo dorato di quel periodo: paillettes e lustrini viaggiavano di pari passo con le chitarre sature della Musica Glam di cui Bowie fu indiscusso protagonista. Era il trionfo del kitsch, ma soprattutto una risposta, neanche troppo velata, al rigore formale che aveva avvolto il pop di fine anni ’60: “Ziggy Stardust, fu molto più che un alter ego per David! – sanciscono i soliti noti – Quelle canzoni sono state la chiave per sdoganare il Glam in tutto il mondo!”

Se così stanno le cose, il genio di Bowie andrebbe riconosciuto senza mezzi termini. Occorre però fare i conti con chi la pensa diversamente. “Ma nemmeno per sogno! – ribatte il solito saputello – nel 1971 <Quello> sbarcava il lunario attraversando miseramente Carnaby Street insieme a Marc Bolan alla ricerca di gonne e orecchini”. Ma il meglio il nostro amico se lo tiene per concludere: “Mentre il cantante dei T.Rex – tra una canna e l’altra – si lasciava estorcere la ricetta segreta per costruire le traiettorie del Glam, quella cartacarbone vivente gli duplicava le intuizioni, per rigettarle dentro The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars

L’insulto a questo punto è manifesto, la rissa quindi parrebbe inevitabile. Se non fosse che provando a cambiare rotta si potrebbero stemperare gli animi, magari arrivando – non privi di affanno – sulle pendici dello Chatéau d’Herourville, vicino a Parigi. Quel luogo infatti fu testimone del momento più creativo del cantante; la trilogia berlinese partì proprio da quelle stanze e l’album manifesto dell’intera operazione fu inequivocabilmente Low. ”Un capolavoro assoluto! – afferma “Mister so tutto io” – Di fatto quei suoni hanno anticipato le torbide atmosfere della New Wave di fine anni 70 e mentre la massa si concentrava sui suoni evanescenti del punk… David era già oltre e trovava anche il tempo per rilanciare la carriera di Iggy Pop!”.

Questo parrebbe un colpo basso ma la saccenza, difficilmente trova rifugio nel silenzio. “Ma nemmeno per sogno! – urla con voce sconnessa l’antagonista contestatore – Nel 1976, <Quello>, sbarcava miseramente il lunario attraversando le secche paludose dei suoi album precedenti e mentre Brian Eno e Tony Visconti gli confezionavano il disco per cui, forse, verrà ricordato, quel ficcanaso trovava semmai il tempo di rovinarlo Iggy Pop! Producendogli due album, uno peggiore dell’altro, altroché rilancio!”

Difficile a questo punto mantenere la calma; se non fosse che la fine del primo tempo – come un fulmine a ciel sereno – sorprende il solito dee jay qualunque che, placidamente sdraiato alla destra del fiume Po, attende di scoprire la seconda parte del “film che si è fatto”, provando a scendere a compromessi con gli Anni 80 di David Bowie.

To be continued …

9 canzoni 9 … per scoprire “Il primo tempo” di David Bowie

Space Oddity

The Man Who Sold The World

Moonage Day Dream

Life On Mars?

Starman

Queen Bitch

The Jean Genie

Warszawa

Heroes