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Bin Laden e i complotti degli antiamerikanisti

Piazzale loreto, 29 aprile 1945: non ero ancora nato, ma so cosa è accaduto e so che avrei partecipato ai festeggiamenti – barbari, istintivi, giustificati e di popolo – per l’uccisione del Duce e l’esposizione del suo corpo alla folla. Avrei celebrato l’esposizione di quel corpo non per odio personale verso l’uomo Benito Mussolini, quanto per odio politico contro il capo e l’inventore di un regime dittatoriale e sanguinario.

Ecco perché quando il 2 maggio 2011 il presidente Barack Obama ha annunciato l’uccisione del capo di Al-Qaeda, Osama Bin Laden, ho sentito dentro un moto di soddisfazione, un senso di giustizia fatta. Eppure non sono stato toccato direttamente dalle sue stragi contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001. Ne sono stato toccato indirettamente, attraverso l’esposizione mediatica della televisione. Stavo completando uno stage estivo alla rivista Internazionale, ed ero al lavoro in redazione. Fu un pomeriggio romano surreale quello, con gli automobilisti che mollavano la macchina in mezzo alla strada per entrare nei negozi e guardare alla tv “l’attacco all’America”, le Torri in fuoco, e quei corpi, quei corpi disperati di innocenti che si trovarono a dover scegliere tra una lenta morte fra le fiamme o l’ultimo salto della loro vita dal centesimo piano. Io quelle immagini me le ricordo bene, non c’è bisogno di YouTube per una volta. Me le ricordo e me le ricorderò per il resto dei miei giorni.

Sull’onda emotiva, l’intero mondo non integralista si strinse al fianco degli Stati Uniti d’America. Le teorie cospiratorie del tipo “dietro a tutto c’è la Cia” sarebbero arrivate più tardi.

Quando Barack Obama ha annunciato l’uccisione di Bin Laden sono invece partite subito le teorie dei “complot-tardi”, che se ne sono usciti con immaginifici dubbi del tipo “Secondo me non l’hanno mica ucciso”, “Perché non mostrano le foto del corpo”, “Come mai dicono di averne gettato il cadavere in mare” e via andando. Mentre sentivo alla radio uno dei campioni di queste teorie, il collega Giulietto Chiesa, spiegare i suoi clamorosi dubbi, mi dicevo: “Beh, se davvero alla Casa Bianca sono così fessi da aver diffuso una notizia falsa di queste dimensioni, è l’occasione d’oro per Al-Qaeda per sbugiardarli e fargli perdere ogni credibilità. Basta che Bin Laden compaia in video, con un giornale post-2 maggio 2011 in mano, denunciando la ‘vile menzogna dello stupido presidente americano’”. Puntualmente, Bin Laden in video non si è visto, e a fronte di una serie di pasticci comunicativi da parte della Casa Bianca (col cambio di varie versioni circa quella che con ogni probabilità è stata un’esecuzione sommaria del capo dei nemici), alla fine è arrivato l’annuncio ufficiale proprio di Al-Qaeda: “Bin Laden è morto”. Fine delle teorie dei complot-tardi, uno spererebbe.

E invece no. Giulietto Chiesa – che ora avrà cambiato idea sulla morte di Bin Laden – non si dà per vinto e continua a prendersela con Barack Obama e quegli americani che hanno festeggiato l’uccisione di Bin Laden. Ma diamine, Giulietto: un conto è indignarsi se qualcuno festeggia l’uccisione di 3000 innocenti, un altro è indignarsi se qualcuno festeggia l’uccisione della mente che ha organizzato la strage dei 3000 civili. Come si fa a mettere le due cose sullo stesso piano?

Ezio Mauro ha scritto che noi europei avremmo preferito vedere Bin Laden sottoposto a un giusto processo internazionale. Ma secondo il diritto, un “giusto processo” è quello nel quale si entra con la presunzione di innocenza e non si è colpevoli fino alla dimostrazione del contrario. Solo che non sarebbe esistito un giudice o una giuria neutrale contro Bin Laden in tutti gli Stati Uniti. E forse, azzardo, nemmeno in tutto l’Occidente. Si sarebbe allora dovuto organizzare un processo in Pakistan, o magari in Afghanistan, con una giuria composta anche da talebani integralisti, per essere proprio fair fair. Sono sogni, questi, e forse nemmeno così ideali. Perché Bin Laden era il Duce dei nemici ed è morto durante un’azione di guerra, non si è costituito a New York. È stato cercato per dieci anni, trovato, arrestato e poi ucciso. Proprio come Mussolini. E la gente che lui ha contribuito a far soffrire ha gioito di una felicità barbara, istintiva, giustificata e di popolo, proprio come quella del 29 aprile 1945. Non mi pare d’aver sentito la voce di Giulietto Chiesa levarsi contro i partigiani di Dongo che fucilarono Mussolini, né contro quegli antifascisti che gioirono della sua esposizione per i piedi.

Ne vogliamo parlare?