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Osama: torturatori alla riscossa

Toh, chi si rivede: Paul Wolfowitz… Intervistato dal corrispondente della Stampa, Maurizio Molinari, quello che, regnante George W. Bush, fu numero due del Pentagono, “neocon” di spicco e primo ideologo della “guerra infinita”, dice la sua sull’uccisione di Osama Bin Laden. E sostiene – non si capisce sulla base di quale logica, prima ancora che sulla base di quali fonti – che le informazioni utili per arrivare al gran capo di Al Qaeda sono giunte da interrogatori condotti nella prigione di Guantánamo. O, più precisamente, da quel Khalid Sheik Mohammed che fu, a suo tempo, uno dei più importanti luogotenenti di Bin Laden. La qual cosa, sottolinea senza tentennamenti Wolfowitz nel corso dell’intervista, “deve far riflettere coloro che in passato hanno criticato la gestione di tali interrogatori, arrivando fino a parlare di tortura, e professando la necessità di chiudere Guantánamo. Spero che chi ha sostenuto tali posizioni ora si renda conto dell’importanza della scelta che facemmo creando questo carcere militare per rinchiudere i super-terroristi”.

Brillante. Ed ancor più brillante risulterebbe tale affermazione se Wolfowitz spendesse qualche parola per spiegare al volgo in che modo una persona rinchiusa dal marzo del 2003 in stato di assoluto isolamento nel più isolato carcere del pianeta (il gulag di Guantánamo per l’appunto) abbia potuto fornire elementi utili per un’operazione svoltasi otto anni più tardi pressoché agli antipodi del pianeta. Ma non è davvero, in questo contesto, il caso di scendere in dettagli. Dei dettagli – e più in generale dei fatti, o di qualsivoglia realtà in grado di contraddire la sua visione del mondo – il buon Paul è sempre stato un nemico giurato. E quel che nell’intervista a lui preme è, con tutta evidenza, non ricostruire gli eventi, ma riscattare se stesso da quella proverbiale “pattumiera della storia” nella quale proprio dagli eventi – ovvero: proprio dagli esiti di quella guerra in Iraq che lui stesso aveva con illuminate parole pronosticato breve, vittoriosa e pressoché gratuita  – era stato con colpevole ritardo spedito ben prima che la presidenza Bush volgesse al termine. Gli iracheni, aveva spiegato con profetica energia Wolfowitz alla vigilia del conflitto, “ci accoglieranno come liberatori”. E le necessarie operazioni militari (fulminee e pressoché indolori) si pagheranno da sole, grazie al “reinserimento nel mercato del petrolio iracheno”. La guerra in Iraq – aveva ammesso con inusitato candore il numero due del Pentagono in un’intervista a Vanity Fair nella primavera del 2003 – non era affatto, come i suoi capi andavano affermando, la risposta ad una situazione di emergenza (le famose “armi di distruzione di massa” che Saddam si preparava ad usare), ma parte d’una nuova strategia globale. Quella, per l’appunto, della “guerra infinita” contro il terrore. Una guerra nella quale Osama Bin Laden ed Al Qaeda non erano che un molto transeunte episodio.

E qui viene il punto. La caccia ad Osama e la campagna d’Afghanistan non furono, nella visione dei “neocon”, che il pretesto, lo spunto d’una strategia globale che aveva nella guerra irachena – e non nella distruzione della rete terrorista di Al Qaeda – il suo punto focale. Provate, per rinfrescarvi la memoria  a risentire (clicca qui per il video) quel che, il 16 marzo del 2003, George W. rispose ad una giornalista che gli chiedeva notizie della caccia a Bin Laden. “You know, I just don’t spend that much time on him…”. Sa che le dico? Io, semplicemente, non perdo troppo tempo pensando a lui…”.

No, Osama non è stato raggiunto e castigato dalla giustizia (non voglio qui discutere quanto davvero giusta sia questa giustizia tanto simile alla vendetta) grazie a Guantánamo ed a tutto quello di cui Guantánamo è diventato simbolo. No, il merito di Obama non è stato – come nel “complimentarsi” con il presidente in carica hanno molto viscidamente sostenuto molti vecchi arnesi della combriccola che ha regalato al mondo la guerra in Iraq – quello di “continuare la politica di Bush”, ma quello di cercare (sia pur con grande timidezza) di chiuderla, per rimettere sulle gambe una strategia antiterrorista che, in Iraq, del terrorismo era diventata il brodo di coltura.

Osama è stato raggiunto e castigato grazie ad un’operazione di polizia preparata da un accurato lavoro di intelligence. E la vera domanda è perché, per arrivare a questa operazione di polizia, ci siano voluti dieci anni, due guerre (con un numero di morti che – con la eccezione dei cinquemila caduti “occidentali” – nessuno si è mai preso la briga di contare) e, infine, le vergogne di Abu Ghraib e di Guantánamo. Vale a tal proposito la pena ricordare che, nel caso di Khalid Sheik Mohammed, si è giunti – come con quasi surreale sfrontatezza ricorda Wolfowitz – “persino a parlare di tortura”, per il semplice fatto che su di lui è stato per oltre sessanta volte praticato il “waterboarding”, una tecnica considerata tale (tortura) fin dai tempi dell’Inquisizione… No, cari neocons d’ogni latitudine. Mi dispiace, ma non c’è castigo che tenga, non c’è vendetta, non c’è “vittoria”, vera o fasulla, che possa riscattare questa vergogna…