Cultura

Eugenio Finardi e il suo “Spostare l’orizzonte”

Trova il punto estremo e sappilo varcare e vedi di spostare l’orizzonte!”. È questo il principio ispiratore di Eugenio Finardi, artista indisciplinato, sognatore, istrionico, cui si è rifatto per scrivere il suo primo libro Spostare l’orizzonte (Rizzoli, pagg. 240, 18 euro), un percorso di confronto e conoscenza reciproca tra l’autore e il lettore, interessante anche per chi non è un suo fan e non ne ha seguito il cammino di ricerca musicale e personale. Una breve “pillola letteraria” che Finardi si regala per festeggiare i suoi 40 anni vissuti all’insegna del rock.

Un libro denso di emozioni all’occorrenza capaci di riaffiorare come ricordi o nostalgia, e che si ritrovano nel fondo dei suoi occhi. A partire dall’infanzia e dai genitori – un nobile lombardo e una cantante lirica americana –, fino ai grandi successi professionali, è una vita, quella di Finardi, segnata anche da momenti difficili. Come la nascita della figlia Elettra, affetta dalla sindrome di Down che “ha fatto riemergere quel lato della mia personalità che il successo aveva soffocato; quel modo di sentirmi diverso, un po’ alieno, mai come gli altri, né italiano né americano, quasi chiuso dentro un’invisibile bolla che mi separava dal resto”.

Il suo primo libro si intitola Spostare l’Orizzonte. Verso dove spostarlo e com’è che vede il nuovo?
Il libro scritto a quattro mani con Antonio G. D’Errico affronta molte tematiche, ma in generale credo che spostare l’orizzonte, a livello planetario, voglia dire soprattutto allargare l’orizzonte della ricchezza, includendo molte più persone: c’è un divario osceno con il 5 per cento dell’umanità che possiede l’80 per cento delle ricchezze. Ci vorrebbe più uguaglianza sociale ed economica, ci sarebbe più benessere e pace. Questa dovrebbe essere la direzione del nuovo, ma sarà un’ardua battaglia.

In questi giorni di rivolte in Nordafrica, di sbarchi dei migranti a Lampedusa e di politici che non sanno come agire, ministri che invece di dar loro speranza rispondono “föra da i ball”. Come vive questi tempi? Qual è la sua opinione al riguardo?
Basta studiare l’Impero Romano, quello Bizantino o Egizio, prima o poi il bastione europeo cadrà, ma per fortuna mi sembra che le rivolte di questi giorni in Nordafrica siano motivate non da fanatismo, bensì da ricerca di giustizia e eguaglianza economica e sociale. Ovviamente saranno periodi duri, ma alla fine, quando le condizioni nei loro paesi saranno più livellate ai nostri, ci sarà forse un’inversione di tendenza… in relazione al commento “föra da i ball”, dimostra solo quale sia il livello morale e umano dei personaggi.

Perché secondo lei siamo una società a “civiltà limitata”?
Perché la civiltà è una pianta fragile, un ecosistema; se si inseriscono delle gravi distorsioni, delle tossicità, si perde il senso del vivere collettivo, non ci si sente più parte di un tutto con uno scopo. Recenti studi scientifici hanno dimostrato che la felicità deriva dall’avere un ruolo nella comunità e non nell’essere ricchi e isolati dagli altri.

I nostri tempi sono segnati da grandi problemi come la disoccupazione, l’abbassamento della qualità dell’insegnamento, le strutture sanitarie sempre più spesso inadeguate, eppure la politica si dedica con ardore a modificare la Costituzione. Perché secondo lei non c’è un moto di rivolta come avviene altrove?
Perché l’anomalia italiana non consente alla gente di essere correttamente informata, tutto viene minimizzato, relativizzato e svuotato di senso. Ovviamente questa anomalia è il controllo quasi totale dei mezzi di comunicazione, se non fosse patetico farebbe ridere lo spettacolo di menti brillanti costrette a fare i salti mortali per giustificare l’ingiustificabile. E poi non c’è rivolta perché siamo un paese di vecchi.

Gli artisti e gli intellettuali che hanno peso nell’opinione pubblica potrebbero dare una mano per scuotere i giovani a trovare nuove strade per migliorare la nostra società?
Io come molti altri cerco di portare sempre un lume di ragione all’interno del mio lavoro, tuttavia la famosa anomalia a livello di gestione dell’informazione, porta molti artisti all’autocensura. Altri hanno l’impressione di combattere contro mulini a vento.

Cosa si aspetta dal futuro?
Attendo con ansia un rivolgimento illuminista, altrimenti non vedo altre vie d’uscita. Per me Liberté, Egalité e Fraternité rimangono il fondamento della democrazia.

Nella sua carriera che peso hanno avuto il caso, la fortuna e il destino?
Non so se siano state queste cose o il talento, ma aver firmato il mio primo contratto a 21 anni con la Numero1 di Battisti, aver in quell’occasione conosciuto Demetrio Stratos e averlo seguito alla Cramps e da lì essere scelto da Fabrizio De André per aprire la sua prima tournée nei Palasport, rappresenta una serie di eventi difficilmente ripetibile ai giorni nostri, nell’ambiente musicale attuale, dove queste cose avvengono per calcolo e non più per ispirazione.

Lei è sopravvissuto a 40 anni di rock. Come è cambiato, questo, ai suoi occhi?
Il rock è diventato una musica “classica” come il blues e il jazz. Mi stupisco del fatto che giovani musice isti che suonano con me abbiano gli stessi miti e maestri che avevo io alla loro età… Forse la nuova frontiera potrebbe stare nella musica classica contemporanea, come in Sentieri selvaggi, lo straordinario ensèmble, mio omaggio a Vladimir Vysotsky, il grande cantautore ribelle sovietico.

C’è qualche giovane che lei considera di talento?
I primi a venirmi in mente sono Caparezza, Silvestri, Bersani, la Consoli anche se girano intorno alla quarantina e i talent show non offrono un valido ricambio. Tuttavia trovo pregevole l’iniziativa del Mei (Meeting etichette indipendenti, ndr) della “Leva cantautorale degli anni Zero”, un doppio Cd che vuole essere una vetrina di rappresentanza della nuova canzone d’autore degli ultimi anni.