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Cameron, gli immigrati e la pensionata di Rochdale

Le dichiarazioni con cui David Cameron, di fronte all’assemblea dei delegati di partito nello Hampshire, è tornato ieri a bocciare la società multietnica ben viva e presente proprio nel Paese che governa, come già aveva fatto non troppe settimane fa, hanno suscitato forti polemiche, come d’altronde era ampiamente prevedibile.

Singolarmente, tuttavia, il primo a rispondere non è stato il leader dell’opposizione laburista Ed Miliband, sulle spalle del cui partito il primo ministro ha rovesciato la responsabilità di anni di politiche dell’immigrazione dissennate. Tanto che, ha perorato Cameron in linea con le argomentazione della “moderna” destra europea, troppa forza lavoro straniera crea l’effetto di spaventare i cittadini britannici. I quali per reazione finiscono poi per votare votano partiti razzisti e fascisti, nel caso specifico il BNP. Sillogismo che, mutatis mutandis, si potrebbe applicare alla logica politica di altri leader francesi, olandesi, tedeschi e ai rispettivi movimenti di estrema destra. Come ovviamente calza benissimo anche con i parametri italiani.

È toccato a Vince Cable, considerato l’anima nobile dei Lib-dem, ed ex ministro del Commercio, l’onere di sferrare un attacco durissimo all’alleato di governo. Senza gli immigrati, ha ragionato Cable, la Gran Bretagna moderna non esisterebbe. Perché sono proprio loro a portare lavoro, e ricchezza. Non a “rubarlo” come Cameron, seppur solo tre le righe, ha lasciato intendere. Nick Clegg, il vice primo ministro, ha seguito, forse suo malgrado, il compagno di partito a breve distanza. Marcando così la frattura ideologica che da un anno rende Conservatori e Liberaldemocratici dei separati in casa dopo il matrimonio di convenienza celebrato all’indomani delle elezioni senza vincitore del maggio 2010.

Lasciando da parte le considerazioni su come non solo Londra, ma neppure Parigi, New York, Sidney o Milano sarebbero quello che sono senza il lavoro di chi migra, il discorso di ieri ha delle forti ripercussioni sulla politica interna britannica.

Tra poco più di 3 settimane il Paese andrà a votare sia per le elezioni amministrative, che per un importantissimo referendum per il cambiamento del sistema elettorale. Esattamente a un anno di distanza dalla formazione del primo governo di coalizione del Dopoguerra, la situazione politica è tesa. I conservatori hanno deciso, coraggiosamente e tatticamente dal loro punto di vista, di prendere il toro per le corna, e tagliare la spesa pubblica a inizio legislatura, ovvero quando sono più forti (e le elezioni generali più lontane). Però a oggi l’economia va male, la disoccupazione giovanile è alle stelle per queste latitudini. E il malumore dei cittadini contro lo smantellamento dello stato sociale cresce di giorno in giorno.

Così come monta il risentimento verso Nick Clegg, trasformatosi rapidamente da eroe della nuova politica a bersaglio del malcontento, proprio per aver suscitato grandi speranze e averle poi deluse nel giro di un accordo politico con i Conservatori. In più, il suo partito, in drammatico calo di consensi, è lacerato. La sinistra interna mugugna, e non da ora. E sembra fremere di gioia ogni volta che intravede una scappatoia dai lacci delle politiche comuni con i Tories, oppure quando mette a segno anche il minimo risultato nei programmi di governo.

Il punto è che, con il discorso di ieri, il premier non fa che parlare ai suoi elettori “di destra”. Ma i suoi alleati, che conservatori non sono, come possono sentirsi a loro agio? Il loro dilemma si perpetua: se si appiattiscono su Cameron perdono consensi, voti alle imminenti elezioni, e pure la faccia. Se si agitano troppo… beh, rischiano di fare la figura del bambino capriccioso che non vuole stare ai patti.

Per questo motivo il 5 giugno rappresenta per loro, e per il destino della coalizione di governo, un traguardo fondamentale. I cittadini del Regno Unito saranno chiamati al referendum per stabilire se mantenere l’attuale sistema elettorale maggioritario uninominale secco (first past the post, FPTP), oppure optare per l’alternative vote (AV), in cui passa il candidato con più preferenze. Non il sistema maggioritario che il partito un tempo di Lloyd George ha sempre sognato, ma almeno meglio di niente. Siglato “col sangue” un anno fa come condizione della partecipazione libdem a un governo, altrimenti privo di maggioranza.

Insomma, le scadenza elettorale è la ragione “dietro le quinte” per cui c’è così tanto nervosismo, a Westiminster e dintorni.

Solo un paio di giorni fa, Gillian Duffy – la pensionata laburista che tirò le orecchie a Gordon Brown e che lui definì “una bigotta”, uscendone con le ossa rotte per l figuraccia – ha beccato Nick Clegg, e con la forza e la spontaneità del senso comune, gli ha chiesto: “ma perché ti sei messo in coalizione Nick? Ne è valsa la pena secondo te?”

La domanda di Gillian, ovviamente, è retorica. Clegg sta aspettando il 6 maggio per poter decidere se è il caso di risponderle sul serio.

http://www.bbc.co.uk/news/uk-politics-13047156