Politica

L’Aquila chiama, <br>l’Italia risponde?

C’è un’occasione di riscossa democratica che rischiamo di perdere. Il 6 aprile di due anni fa il terremoto distruggeva L’Aquila e il suo tessuto sociale ed economico. Una tragedia che mise a nudo gli effetti di sessant’anni di regressione della democrazia e dello Stato di diritto in Italia. Furono, infatti, il dissesto idrogeologico, la mancata prevenzione, l’edilizia fuori norma, l’elusione di controlli e procedure a trasformare quella manifestazione ostile della natura in una catastrofe.

Allo stesso modo, la gestione emergenziale successiva al sisma, in stile “Protezione civile S.p.A.”, rese evidente quanto quel modello – quello dei diecimila Commissari straordinari che occupano oramai tutti gli aspetti della vita pubblica svincolati da regole, controlli e responsabilità, sottraendo potere e competenza alle istituzioni democratiche in favore di soluzioni autoritarie e criminogene – prefigurasse un’ulteriore involuzione in senso illiberale della nostra forma di Stato.

I primi a capirlo furono proprio gli aquilani, la cui capacità di organizzarsi e di proporre ci apparvero un primo segnale di quella rivolta nonviolenta, legalitaria, democratica, indispensabile per liberarci da un regime partitocratico che usurpa le istituzioni e occupa i territori. Proprio per questo, a luglio tenemmo il Comitato nazionale di Radicali italiani all’Aquila nel tendone dell’assemblea cittadina, consapevoli che il potere cancella le voci realmente alternative e dissenzienti.

Tre settimane dopo, il Partito Democratico si mosse “alla radicale”: portò i suoi parlamentari in pullman nel capoluogo abruzzese, con Pierluigi Bersani che dichiarò: “Da domani ogni parlamentare che é venuto qui sentirà l’impegno per l’Aquila come un compito personale e cercheremo di metterci al servizio a partire dalla legge di iniziativa popolare per la quale raccoglieremo le firme in tutta Italia”. Una proposta di legge elaborata, al termine di discussioni, consultazioni e incontri pubblici, dalla stessa assemblea cittadina e che, al pari del disegno di legge depositato dai parlamentari radicali a prima firma Elisabetta Zamparutti, affronta in maniera organica il passaggio dai commissariamenti straordinari ad un governo ordinario e democratico della ricostruzione.

La raccolta firme è iniziata lo scorso 20 novembre e non è ancora ultimata; 50 mila sono le sottoscrizioni minime necessarie, ma per riportare L’Aquila al centro dell’agenda politica nazionale servirebbe una mobilitazione straordinaria, raccogliendo in tutta Italia centinaia di migliaia di firme, come se fosse un referendum. Perché di un referendum civile si deve trattare, per chiedere al Paese se vogliamo lasciare sola L’Aquila, accettandone la cancellazione storica, culturale, sociale ed economica, oppure se vogliamo farne il fronte iniziale di una più vasta campagna per la messa in sicurezza del territorio dai prevedibilissimi danni da dissesto idrogeologico. Un rischio che riguarda secondo stime recenti il 70% dei Comuni italiani, con un edificio scolastico su tre che risulta fuorilegge perché non possiede la certificazione di agibilità, sebbene il 55% si trovi in zona a rischio sismico.

Con risorse esclusivamente militanti, abbiamo aperto in varie città d’Italia le nostre “sedi”, cioè i tradizionali banchetti per la raccolta delle firme. E ci siamo scontrati di nuovo con l’antidemocrazia italiana. Per chi ha scelto di avere le mani libere dai bottini partitocratici, senza consiglieri comunali e provinciali e senza finanziamento pubblico dei partiti, raccogliere firme è oramai improbo. A meno di non farlo “alla Firmigoni”, si intende. Visto che lo Stato non garantisce un vero servizio pubblico di autenticazione delle sottoscrizioni, l’unica possibilità sono i partiti che dispongono di migliaia di eletti negli enti locali. Purtroppo, abbiamo trovato – a parte alcune lodevoli eccezioni- disinteresse se non esplicito rifiuto, anche da chi si era pubblicamente speso e stava raccogliendo milioni di firme su altro.

Nel frattempo, i lavori in quello che doveva essere il più grande cantiere d’Europa sono fermi, le procedure rimangono incerte e il sindaco Cialente si è dimesso di fronte alla paralisi. Un modo per recuperare il tempo perduto però esiste ancora: in questi giorni tutti i partiti stanno raccogliendo firme autenticate per presentarsi alle elezioni amministrative. Basterebbe aggiungere i moduli della legge di iniziativa popolare e in pochi giorni L’Aquila tornerebbe al centro della politica nazionale, anche senza le passerelle del presidente del Consiglio.