Cultura

“Flags”, quando il teatro racconta<br>il dramma delle famiglie dei caduti

Dal 19 gennaio a Milano la pièce teatrale americana: un'efficace rappresentazione del dolore, con il padre di un ragazzo che chiede spiegazioni allo Stato per una morte assurda. Non le ottiene e dà vita a una piccola, ma significativa, protesta

L’ultima vittima, la trentaduesima, è di oggi: Luca Sanna, 33 anni, di Oristano, caduto in una sparatoria avvenuta in un avamposto nella cintura di sicurezza intorno alla base di Bala Murghab, Afghanistan. E solo pochi giorni fa, il primo del 2011, era morto Matteo Miotto, 24 anni, in uno scontro a fuoco fra le montagne del Gulistan, una delle zone più remote e più calde dell’Afghanistan.

Beppe Rosso, regista e interprete della piece teatrale Flags dell'autrice americana Jane Martin

Matteo aveva una famiglia, un padre in particolare, che non si rassegna alla perdita del figlio («era orgoglio e speranza per me e per mia moglie») e che esige verità sulla sua morte («non tutto è chiaro»).

Proprio come il padre di Carter, Eddie, che piange il figlio caduto a Bagdad e chiede, inascoltato, la verità sulla sua morte.

Solo che Matteo è morto per davvero, ennesima vittima delle guerre silenziose, o meglio silenziate, che insanguinano il pianeta. Mentre Carter muore ogni sera sul palcoscenico in Flags, la pièce teatrale di Jane Martin (autrice di culto negli Stati Uniti, dove è molto rappresentata) portata in scena da Beppe Rosso al Teatro Atir-Ringhiera di Milano (dal 19 al 23 gennaio).

A differenza degli Stati Uniti, dove da sempre letteratura, cinema, teatro raccontano in diretta le conseguenze della guerra, e soprattutto ne ragionano, in Italia questo accade rarissimamente. Flags è l’eccezione che conferma la regola, con un’efficace rappresentazione del dolore (universale: la morte di un figlio è un identico dramma a ogni latitudine) e dello sgomento per la casualità che quella morte ha determinato. Perché proprio lui? Perché in quel modo? E poi: perché proprio in guerra? Quella guerra?

Eddie (interpretato dallo stesso Beppe Rosso) è un padre orgoglioso e convinto dell’utilità della missione in Iraq. Quello che non capisce è come mai suo figlio sia morto in un modo così poco glorioso: fulminato da un cecchino mentre piantava la bandiera americana su un cumulo di spazzatura. Che cosa c’è di eroico nel raccogliere i rifiuti a Bagdad? Si può morire difendendo una collina di spazzatura?

Eddie chiede spiegazioni che gli vengono negate. Allora, per protesta, issa a testa in giù la bandiera che sventola nel suo giardino di buon americano. Una provocazione estrema negli Stati Uniti, dove la bandiera è sacra. Un atto di ribellione che infiniti adduce lutti alla sua già provata famiglia.

Il riferimento alla tragedia greca non è casuale: in scena, oltre a Eddie, la moglie Jane (Ludovica Modugno), l’altro figlio Frankie (Aram Kiam) e l’amico di famiglia (Alarico Salaroli), c’è il coro che scandisce e commenta gli eventi. La pièce scorre così fra pubblico (il dramma della guerra) e privato (il dolore, la rabbia della famiglia) in un rimando continuo fra storia («Oggi come allora l’occidente è in guerra con i persiani» suggerisce Rosso) e attualità. A soffiare sul fuoco delle polemiche, ad accendere gli animi e a innescare la nuova tragedia sono infatti i media, tv in testa, che accorrono sul luogo di ciò che è considerato l’autentico oltraggio: non la morte del giovane Carter ma la bandiera issata capovolta da suo padre.