Politica

Quattro giorni con uno studente arrabbiato

Mio nipote ha 23 anni e fa politica. Ho trascorso con lui quattro o cinque giorni, tra un’occupazione e l’altra dell’Università di Roma. Abbiamo parlato molto, di Grecia, delle violenze, di consumismo e politica. Insieme abbiamo guardato Annozero e commentato i giornali. Mi sono reso conto che a mio nipote sfugge la differenza tra rabbia e indignazione.

Chi subisce direttamente un’ingiustizia si sente defraudato, patisce la violenza, misura sulla propria pelle l’entità di un danno e vorrebbe reagire subito, prendersela con qualcuno. Però mio nipote non prova ancora sulla pelle questi problemi, sta ancora studiando. Non è ancora in difficoltà economiche, perché per pagarsi l’università gli basta fare il cameriere o il muratore per un paio di mesi. Per il resto dorme in casa dei genitori, non paga mutui, non è sposato, non ha figli. La rabbia la provano i disoccupati; la rabbia dovrebbero provarla gli anziani senza pensione; la rabbia è dei precari, dei genitori che non arrivano a fine mese, che non sanno come pagare l’affitto. Neppure per loro giustificherei la violenza, ma mio nipote non può neppure invocare la rabbia che la genera. Non lui, non la gran parte degli studenti, che prima e dopo ogni manifestazione hanno una famiglia, una stanza dove dormire. Loro, com’è giusto, devono essere preoccupati, devono partecipare, studiare e agire politicamente. Cosa che fanno, e di cui sono molto orgoglioso.

Ho cercato di spiegare a mio nipote che la sua rabbia è un sentimento che viene da dentro, dunque non ha a che fare con questioni oggettive o problemi politici. E’ lo sfogo di un problema psicologico personale, molto diffuso. Anche io provo rabbia, a volte. La sfogo sempre su qualcosa, la prima che mi capita a tiro. In questo Paese c’è gente che la sfoga sugli immigrati, causa di ogni male, sui gay, sugli handicappati, sulle donne, sugli avversari, sui collaboratori, sui bambini. Alcuni poliziotti sfogano la loro rabbia sugli studenti. Alcuni studenti la sfogano sulle vetrine, sulle auto, sui poliziotti. Non cambia molto, a ben vedere.
Vivere dentro questo sistema, così com’è, fa venire molta rabbia. A molti. Anche a mio nipote. La differenza tra me e lui è che io ho capito che è un problema mio. Come me, come tutti a questo mondo, anche lui dovrà disinnescare dentro di sé la propria guerra. La rabbia non è un linguaggio politico, ma un problema di cui venire a capo individualmente, senza mentirsi sulla sua origine, senza sbagliare destinatario sulla sua direzione.
Deve capirlo, questo, se vuole almeno tentare di diventare un uomo.

Ho anche provato a spiegargli che di Tien an Men, più dei morti rimasti anonimi, più di ogni altra cosa, ricordiamo un giovane gracile, magro, inerme, dritto davanti a un carro armato, disarmato, pacifico, ma fermo. Ho provato a suggerirgli che migliaia di studenti sdraiati tutti i giorni davanti al Parlamento, per settimane, per mesi, costringendo la polizia a spostarli senza opporre alcuna resistenza, diventando una notizia quotidiana, hanno un potere enorme, simbolico e politico, che la violenza invece azzera, circoscrive, dissolve.
L’ho invitato a constatare che i più violenti tra loro non sono i migliori combattenti. Sono solo i più fragili, i più esasperati. Chissà da cosa, ognuno ha le sue cause.

Ho cercato soprattutto di spiegargli che un mondo migliore è una cosa che ha a che fare con l’intelligenza e il progetto, la costanza e la caparbietà. Ognuno di fronte a sé stesso, alla propria vita, diventando forte e saldo, così forte e così saldo da non fare confusione tra rabbia e indignazione, tra la via breve della violenza e la via lunga dell’azione.

Ho avvisato mio nipote che questa posizione è impopolare, che quelli che pensano, che non cedono al ricatto della piazza e restano integri e duri nell’azione di lotta, da sempre, vengono accusati di pavidità, di vigliaccheria, rischiano di perdere ruolo, perché nel caos ha più ruolo chi urla sopra il rumore. Più ruolo ma meno impatto. Per questo la via che lo attende è difficile. Non c’è cosa più dura di fare una battaglia mantenendo alta la guardia delle distinzioni, senza massificare, senza prendere la via laterale che rende di più in termini d’immagine tra simili. Ho cercato di spiegargli che se un uomo prova rabbia deve porsene il problema. Così come devono farsi molte domande quelli che in questa epoca non provano indignazione e non partecipano. Anche loro sono preda di una nevrosi: ignorano il mondo in cui vivranno.
Il Sistema preferisce avversari che non scendono in piazza oppure che spaccano tutto. Sono i più facili da battere, non hanno mai dato fastidio a nessuno.

Ho mostrato a mio nipote che molti “adulti” strizzano l’occhio ai giovani. Si mostrano comprensivi sulla violenza, o non sufficientemente fermi nel condannarla. Quasi tutti hanno tra quaranta e cinquant’anni. Nel 1980 loro, come me, avevano quindici anni. Mi pare che sfoghino oggi, attraverso i figli, la frustrazione di non essersi mai ribellati, figli del consumismo, troppo giovani per il movimento studentesco degli anni ’70, troppo vecchi perfino per la Pantera. Omologati e fuori tempo allora, cattivi genitori e consiglieri immaturi oggi. Mi fanno paura. Anche questo ho detto a mio nipote, 23 anni, stavolta parlando di me.