Politica

L’istruzione che vogliamo

La protesta mi pare riproporre vecchi slogan di chi vuole mantenere lo status quo, di chi è aprioristicamente contro qualsiasi tipo di cambiamento e crede di usare la scuola come luogo di indottrinamento politico della sinistra“. Per questo: “bisogna avere il coraggio di cambiare”. Parla come il premier – e del resto del premier è creatura politica- il ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini che non incontra i precari della scuola e i ricercatori dell’università che protestano (perché ‘comunisti’), che non si cura degli studenti che manifestano (perché sarebbero sobillati dai ‘comunisti’ in cattedra). Eppure c’è un mondo in rivolta in queste settimane: atipici della scuola e dell’università, ricercatori e presidi, studenti e insegnanti, famiglie e personale amministrativo. Un mondo che sabato 16 ottobre, a Roma, ha sfilato fianco a fianco dei metalmeccanici della Fiom, entrambi animati dal desiderio di difendere lo stato di diritto e la democrazia, che hanno nell’istruzione e nel lavoro i due assi portanti. Di questa mobilitazione lei non si cura e procede.

Procede per come è realmente: semplicemente berlusconiana e figlia della sua epoca. Ossessionata come il suo pigmaglione politico dalle ‘forze rosse’, invoca il mito del cambiamento a tutti i costi, quello retorico e roboante dei nuovisti e riformisti che circolano di questi tempi. E non riesce a capire, la Gelmini, che il cambiamento non è in se stesso un ideale e un valore, perché la sua positività dipende dal cosa esso comporta. Politica superficiale che teme il merito del dibattito, che si ferma allo slogan e non valica la soglia della materia viva del confronto. Quindi sono da spazzare via tutti coloro che dal di dentro si spingono al cuore della questione, contestando come il suo piano di riforma dell’istruzione (ormai quasi ex pubblica) non sia una rivoluzione ma una restaurazione, cioè il ritorno ad una formazione elitaria, con cui viene sacrificato il pubblico a vantaggio dei privati, con cui muore il sapere critico per il conformismo nozionistico, quello rilanciato dalla tv commerciale.

Una riforma fatta con le forbici già nella manovra economica estiva: 1miliardo e 350milioni in meno all’università, 8 miliardi in meno alla scuola, 140mila insegnanti licenziati e via elencando. E nonostante questo, il piano di distruzione ha trovato uno scoglio nei conti del ministro dell’Economia. Così un provvedimento celebrato come fiore all’occhiello di questo governo si arena davanti alla calcolatrice di Tremonti: non ci sono soldi per sostenere l’emendamento che prevedeva per 9mila ricercatori universitari la trasformazione, spalmata in sei anni, in professori associati. Servivano 1miliardo e 700mila euro, Tremonti ne mette a disposizione solo 7/800 mila. La discussione alla Camera è stata rinviata dopo la sessione di bilancio e magari alla fine i soldi per coprire tale scempio verranno magari trovati. L’esecutivo comunque se ne frega della scuola e dell’università, perchè investire in questi settori gli appare come gettare il denaro alle ortiche: l’esatto contrario di ciò che farebbe un paese normale in epoca di crisi, l’esatto contrario di ciò che fa l’Europa in tempo di crisi. Nell’Ue il nostro è il governo che meno ha investito in formazione e istruzione, nella ricerca arriva allo 0,8%.

L’Italia dei valori ha proposto una sua riforma, che abbia le sue stelle polari nel merito e nell’accesso formativo a tutti. Nella scuola primaria, attuazione del tempo pieno con ripristino dell’insegnamento modulare. Nella secondaria, attenzione alle discipline che consentono di dotare le giovani generazioni della capacità critica (le materie umanistiche e quant’altro) per evitare la massificazione dei cervelli utili al consumismo dominante. Numero di alunni massimo per classi di 24, 20 in presenza di un diversamente abile a cui deve essere garantito un insegnante di sostegno. Innalzamento dell’obbligo scolastico a 18 anni (incluso anche l’ultimo anno di asilo), a differenza di quanto proposto dal governo sull’apprendistato a 15 anni. Lingue (almeno due) e informatica fin dalla scuola primaria, introduzione nelle medie inferiori, con potenziamento nelle superiori, di un’area tecnico-pratica e artistico-musicale, con laboratori artigianali e artistici. A questo, si devono accompagnare le misure indicate dagli stessi sindacati come indispensabili nel settore dell’università: garantire le risorse umane fermate dal blocco del turn-over; bloccare il proliferare dei contratti atipici, prevedendo un percorso di stabilizzazione che abbia per l’accesso un solo tipo di contratto: quello a tempo determinato; attuare marcia indietro sull’abolizione del ruolo del ricercatore; stop alla riforma del meccanismo concorsuale per i docenti, con l’abilitazione nazionale seguita dalla chiamata delle singole sedi, perché favorisce baronie e clientele. Anche sulla governance si deve prevedere un cambiamento: il ddl concede eccessivo potere ai rettori a danno del Senato accademico, cioè ad un organismo collegiale che anzi dovrebbe veder certa la partecipazione di tutte le componenti universitarie (dai docenti ai dottorandi fino ai tecnici e gli studenti). Centrale, infine, evitare la trasformazione delle università in fondazioni con “esterni” nel cda degli atenei, che piegano gli atenei stessi alle logiche di mercato (che non vuol dire chiudere le università allo scambio con il mondo del lavoro e col territorio). C’è, poi, un tema che va affrontato definitivamente: il costo universitario. Lavorare per un reddito di cittadinanza a sostegno del diritto allo studio, rinforzare l’edilizia che ospita gli studenti, promuovere convenzioni nei trasporti e calmierare i prezzi di affitto delle case per i fuorisede sono obiettivi degni di un paese non solo democratico, ma moderno che crede nel futuro.