Cinema

Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti

Boonmee sta per morire. Quindi per reincarnarsi. Perché quando si torna all’unità della natura, nel flusso degli elementi, si torna nel circolo della trasformazione e del mutamento. Per prepararlo al trapasso, nella sua tenuta in campagna arrivano i fantasmi della moglie defunta 20 anni prima e del figlio, diventato una scimmia perché si è unito a una misteriosa creatura della foresta. Assieme a loro, ad assistere Boonmee, la cognata e un nipote. Gente di città. Che va di fretta, ma che impara anche volentieri a parlare con i fantasmi e a perdersi in caverne dalle forme cangianti. Cangianti come Lo zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti, una rapsodia di fronte alla quale lo spettatore può abbandonarsi e godere. Oppure “ragionevolmente” trincerarsi.

La prova del nove è forse quando compare il fantasma del figlio-scimmia: se a vostro avviso la scena non sfiora il ridicolo (ma anzi il sublime) allora potete andare avanti. Che Weerasethakul fosse un regista capace di metterci alla prova, si sapeva. Ma a differenza di altri lavori (per esempio il suggestivo Tropical malady) il thailandese realizza qui una risonanza esemplare tra l’andamento musicale del suo cinema e il racconto. Il vagare è delle anime, delle vite trasmigranti. Ma anche degli slittamenti tra una scena e l’altra, difficilmente unite da nessi causali in senso stretto. Non si tratta, banalmente, di un film visivamente “bello”. Lo zio Boonmee riesce a mostrare l’essere delle cose. Delle persone, degli animali, delle pietre (la caverna è una tavolozza straordinaria). E sono molti i momenti ammirevoli: la cena con i parenti defunti; la morte di Boonmee; il finale che è in sé un capolavoro. E poi la scena “madre”, che racchiude tutte le altre e da cui tutte le altre si generano: la parabola della principessa e del pesce gatto.

La natura raccontata da Apichatpong Weerasethakul è un continuum multiforme che però possiede una sua intrinseca unità. Pensiero orientale? No, tema universale: anche Zeus diventava pioggia dorata per Danae o cigno per Leda. Anche nella mitologia greca (e nel pensiero stoico) esisteva la concezione del divenire, della materia-flusso. Per questo non c’è nessun esotismo nel film di Weerasethakul, ma di certo bisogna fare appello a un pensiero della natura che non è “maggioritario” in Occidente. Lo spettatore, in qualche modo, si può così rispecchiare in un personaggio: la cognata di città. Se analizziamo attentamente la struttura del film ci rendiamo infatti conto che è lei il vero soggetto dell’evoluzione. Non a caso, il film si conclude su di lei – e non con la morte di Boonmee – in una sequenza bellissima e struggente. La cognata è, come noi, imbrigliata nel mondo degli oggetti, dei rapporti causali, dei pregiudizi (per esempio sul “clandestino” che viene dal Laos) e della materia come ente manipolabile. Come la cognata in questione, poi, anche lo spettatore non sa esattamente dove il film lo stia portando. L’interrogazione è continua e continuo è il depistamento tra quel che pensiamo possa (o debba) accadere e quel che vediamo.

Alla fine, Weerasethakul non realizza “solo” un film a suo modo metafisico ma anche un racconto morale. Perché la contrapposizione tra Boonmee e i parenti “cittadini” è uno degli elementi dominanti. Solo chi ha imparato a percepire la materia vivente può imparare a morire. Solo chi accetta senza valutazioni il darsi della natura – di cui l’uomo è parte e con la cui univocità può tornare in contatto – può imparare a muoversi stando fermo. A divenire fantasma, a esistere in molti modi. Solo chi non sa cosa diverrà può vivere rispettosamente. La contrapposizione cinematografica assoluta al film di Weerasethakul è la natura “chiesa di Satana” del Von Trier di Antichrist. La sgradevolezza e la concettualizzazione di quel film sono l’opposto della soavità e del flusso di Lo zio Boonmee. Un motivo ci sarà.