Cultura

Chailly, Corea e Bollani: l’arte dell’incontro

Due maestri e un giovane, ma già acclamato, talento: il grande direttore d’orchestra Riccardo Chailly, il leggendario pianista jazz Chick Corea e, fra loro e con loro, Stefano Bollani, virtuoso del piano jazz nonché irresistibile mattacchione.

È un momento d’oro per il trentottenne pianista che, in una rapida quanto folgorante carriera, ha conquistato prestigiosi premi, un successo di pubblico da rockstar (è l’unico musicista jazz italiano ad avere un suo Fan club) e, ora, anche la stima e l’amicizia dei due celebrati maestri.

Ed è un gran bel momento anche per la musica, capace di mescolare generi e personalità differentemente grandi: Chailly, Corea e Bollani sono tutti e tre in cartellone al MITO, il festival che illumina di note il settembre milanese e torinese. Ha cominciato Chailly, inaugurando il festival il 3 settembre con la leggendaria Gewandhaus Orchestra di Lipsia che suonava Mendelssohn e Shumann (replica a Torino il 5 e il 6). Continueranno Corea e Bollani con due concerti, l’8 e il 9, a Milano e a Torino.

Ma l’evento più atteso è il disco in uscita il 14 settembre: George Gershwin suonato da Bollani con la Gewandhaus orchestra, sul podio Riccardo Chailly. La Rhapsody in blue e il Concerto in F suonati come mai prima. E, per Bollani, la consacrazione (anche) come musicista classico.

«La vita è l’arte dell’incontro» diceva il poeta e musicista brasiliano Vinicius de Moraes. Anche la musica. Bollani ha incontrato per la prima volta Chick Corea lo scorso anno, in occasione del primo dei loro concerti in duo (VIDEO dell’esibizione a Umbria Jazz 2009). «Siamo saliti sul palco senza una vera prova – solo dieci minuti – ma dopo esserci lungamente scritti» racconta. «Io ero intimidito da quello che ho sempre considerato un idolo. Lui, che mi conosceva solo di nome, ha cercato i miei dischi, li ha ascoltati e me ne ha scritto. Chick ha molta voglia di parlare di musica, di ragionarci, di approfondire ed è terribilmente gratificante che lo faccia con me». Niente scaletta per i loro concerti: «Abbiamo una lunga serie di standard che possiamo lanciarci l’un l’altro». Ma possono anche inventare, lì per lì, un tema e improvvisarci sopra, come è successo al concerto di Ravello, in luglio: «Otto minuti di pura impro, il paradiso per ogni jazzista». Dai primi concerti è già nato un nuovo brano, scritto da Corea. «Ora tocca a me» dice Bollani. «Ma sono terribilmente in soggezione: lui è un caposcuola, sempre riconoscibile eppure capace di reinventarsi ogni volta. Mille musicisti hanno rubato da lui, anch’io: questi concerti sono un modo per rendergli il maltolto». Con quelli di Milano e Torino i concerti saranno otto, e a quel punto ci sarà abbastanza materiale per scegliere il meglio di ogni esibizione per il disco live che uscirà nel 2012.

Se Bollani è intimidito da Chick Corea, figuriamoci che cosa deve essere stato, per lui, sedersi al pianoforte al cospetto di un maestro come Chailly e di un’orchestra come la Gewandhaus di Lipsia, la più antica d’Europa (è stata fondata nel 1743). «E per di più alle 9,30 del mattino: per me un orario, diciamo così, inconsueto…» aggiunge il pianista. Ma facciamo un passo indietro. Chailly e Bollani si erano incontrati due estati fa, a un concerto del jazzista a Rapallo. «Non sono un cultore del jazz – solo perché non ho tempo di ascoltarlo – ma ero incuriosito da questo musicista del quale si dicevano grandi cose. Era un concerto di piano solo e rimasi molto colpito dal suo modo di fare musica: un pianismo virtuoso ma corredato da una profonda cultura armonica e una tecnica da Conservatorio». Così Chailly pensò a lui quando decise di tornare a Gershwin (che aveva già affrontato trent’anni prima con la Cleveland Orchestra) perché «come Schönberg , anche Gershwin richiede una tecnica funambolica». Ma anche perché Bollani è un jazzista, e il jazz ha in Gershwin un padre fondatore.

L’incontro fra i due musicisti è stato estremamente felice, sia dal punto di vista artistico che da quello umano. Bollani è un simpatico burlone, lo sa bene chi l’ha conosciuto alla radio nella fortunata trasmissione Dottor Djembè o in televisione con Renzo Arbore o nei concerti, dove duetta comicamente con i partner (uno fra tutti: il trombettista Enrico Rava) quando non si presta a reinterpretare in irresistibili medley i brani scelti dagli spettatori. «Con Stefano ci si diverte molto, ma quando si comincia a parlare di musica lui diventa serissimo: la conversazione si fa serrata, seria, profonda» dice Chailly. «E ci si trova mentalmente con un modo affine di pensare alla musica, all’esecuzione». Entrambi considerano Gershwin un gigante del ‘900, un genio spesso frainteso: «Non ho mai esitato a collocarlo accanto a Igor Strawinskij, Claude Débussy, Maurice Ravel , e ancora oggi creo stupore, addirittura scandalo». Eppure Gershwin era ammirato da musicisti come Schönberg e Ravel (che da lui trasse spunti per la sua musica) e alla premiére del 12 febbraio 1924, a New York, la Rhapsody in blue venne applaudita da compositori come Ernest Bloch e Sergej Rachmaninov, direttori d’orchestra come Leopold Stokowski e Willem Mengelberg, il pianista Leopold Godowsky.

La versione registrata con la Gewandhaus è quella della prima, l’originale per pianoforte e jazz band orchestrata da Ferde Grofé: «Eseguita da un ensemble ridotto – una trentina di elementi – che riconsegna l’opera al suo spirito originario: più asciutta, più spartana nell’orchestrazione rispetto alle versioni, per così dire, imponenti suonate con l’orchestra al completo » spiega Chailly .

Oltre alla Rhapsody in blue, il disco contiene il Concerto in Fa, con cui Gershwin si cimentò in una forma compositiva più classica («Un’opera che, per grandezza e difficoltà, è paragonabile a Srtrawinskij, dice Chailly») passando per la suite Catfish Row (da Porgy and Bess), dove tutti riconosceranno temi immortali come Summertime. In coda, una chicca: Rialto Ripples, un ragtime scritto da un Gershwin appena diciottenne, soffuso di una palpabile allegria. Si devono essere divertiti, e parecchio, gli austeri orchestrali della Gewandhaus a lavorare con quella strana coppia di musicisti, il grande direttore d’orchestra e l’impertinente pianista jazz, ma mantenendo l’aplomb degno della loro fama e tradizione: si sente solo un brusio quando, alla fine dell’ultimo brano, Chailly saluta prima l’orchestra («Auf wiedersehen”), poi Bollani («Ciao Stefano, io vado») e quest’ultimo, mentre continua a modulare al piano da solo, libero finalmente dai vincoli della partitura, risponde: «Ciao Riccardo, ah… ordini le linguine anche per me?…».