Cultura

Dalla Chiesa, Cento giorni a Palermo

di Andrea Meccia

Qualche sera fa, una piacevole sorpresa. Rai Storia mandava in onda in prima serata il film Cento giorni a Palermo (regia di Giuseppe Ferrara, 1984) e al termine della pellicola un breve approfondimento sulla morte del Generale Dalla Chiesa, estratto di una vecchia puntata del ciclo La Storia siamo noi. Questo piccolo pezzo della televisione pubblica ricordava nobilmente e sommessamente ai cittadini pagatori del canone quello che di terribile accadde il 3 settembre del 1982 a Palermo, quando la mafia uccise il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russ

o. Da poco più di tre mesi il Generale Dalla Chiesa, celebrato come l’eroe nazionale della lotta al terrorismo, aveva lasciato la divisa di carabiniere per indossare gli abiti di prefetto del capoluogo siciliano. Il film annuncia in maniera didascalica l’arrivo di Dalla Chiesa in Sicilia ricordando la terribile serie di morti eccellenti di quegli anni (Boris Giuliano, Cesare Terranova, Piersanti Mattarella, Gaetano Costa e infine Pio La Torre). Dalla Chiesa, ben interpretato da Lino Ventura, si muove in una città difficile da vivere e interpretare. Una Palermo bella, estiva e solare inganna, semina morte e violenza, mostra il suo lato popolare e regala anche speranze. E con la speranza di una Sicilia migliore, Dalla Chiesa va a dialogare. Va nelle scuole, nei cantieri, nelle fabbriche a dare l’immagine di uno Stato vicino ai cittadini.

Ma il film appare anche allo spettatore ignaro della storia del generale, un viaggio verso la morte del protagonista. È il rischio e il limite di film biografici che raccontano la storia di eroi dell’antimafia destinati al martirio. Una tendenza che nella produzione audiovisiva italiana si consoliderà all’indomani delle stragi del 1992. E questo film, non ce ne voglia Giuseppe Ferrara, sembra esserne un po’ l’apripista. Lo spettatore dialoga poco con il film, perché il protagonista dialoga a sua volta poco con il contesto in cui opera. La città, come detto, è sfuggente e violenta. La politica è assente e connivente. Nei palazzi dove si esercita il potere dello Stato si annidano talpe velenose. Sappiamo tutti come andrà a finire (colpa degli eventi reali), ma all’immaginazione dello spettatore resta solo pronosticare come il regista metterà in scena il delitto finale.

Film come Cento giorni a Palermo, dignitosi e percorsi da un sentimento civile nobile e apprezzabile, denunciano e informano, ma l’idea di una invincibilità della mafia che sembra attraversarli si attacca sulla pelle dello spettatore e lo accompagna nella sua quotidianità. Ma a Ferrara va riconosciuto il merito di non far scorrere i titoli di coda sulla scena del delitto. Abbandonata l’immagine della A112 bianca crivellata di colpi, la macchina da presa guarda la città dall’alto e un urlo di speranza la attraversa. È la voce di un cantastorie (‘U cuntu, Mimmo Cuticchio) che in un siciliano strettissimo lancia il suo grido di dolore. Il buio e il sangue di Via Isidoro Carini (luogo del delitto) non ci sono più. Palermo si è risvegliata, ma ancora tanto dolore l’avrebbe invasa nei tristi anni a venire.