Cultura

L’urlo di Ginsberg diventa film <br/> per raccontare l’epopea della beat generation

Il film, dalle sale da venrdì, racconta la vita di Allen Ginsberg, il poeta della beat generation, e il suo capolavoro generazionale l'Urlo

«Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia …»

Era il 13 ottobre1955 quando un giovane poeta, gli occhi ardenti dietro le lenti da miope, la voce swingante, leggeva pubblicamente alla Six Gallery di San Francisco il testo che avrebbe rivoluzionato la poesia e acceso le giovani menti della seconda metà del Novecento. Il poeta era Allen Ginsberg, il poema, Howl (Urlo). Un pugno nello stomaco per la crudezza con cui ritraeva l’altra faccia del sogno americano: droga, morte, solitudine, follia. Ma anche incredibile energia vitale. La stessa grazie alla quale Ginsberg e i suoi compagni d’avventura (un certo Jack Kerouac, per citarne uno su tutti) diedero vita a quella che fu poi battezzata beat generation: una corrente poetica che si fece pensiero filosofico e movimento di massa.

Quel poema, quel poeta, quella generazione di artisti maledetti/benedetti tornano ora in un film, Howl (nelle sale dal 27 agosto) da non perdere. L’hanno diretto Rob Epstein e Jeffrey Friedman, formidabile coppia di registi e documentaristi (Oscar per The times of Harvey Milk, documentario sul leader del movimento gay di San Francisco) che hanno avuto la felicissima idea di affidare il volto e la voce di Ginsberg a James Franco (già accanto a Sean Penn proprio in un altro Milk, il biopic di Gus Van Sant).

Franco (che rivedremo a breve con Julia Roberts in Mangia, prega e ama e in 127 hours, dell’inglese Danny Boyle (quello di Trainspotting), è un Ginsberg perfetto, non solo per la somiglianza fisica, ma per l’intenzione che trasuda da ogni suo gesto e parola. Non a caso, il trentaduenne attore di Palo Alto ha in tasca una laurea alla Columbia University in Letteratura inglese e terrà prossimamente un seminario di poesia a Yale.

Il film ha tre piani narrativi che si intrecciano armoniosamente. C’è la vita giovanile di Ginsberg con i suoi amici (Jack Kerouac, Lawrence Ferlinghetti), con i suoi amori (il primo, Neal Cassady, e quello della vita, Peter Orlowsky) e con le prime letture pubbliche del poema. C’è il processo creativo, straordinariamente raffigurato attraverso i disegni animati di Eric Drooker, che già aveva illustrato alcune poesie di Ginsberg, del quale era amico fin da ragazzino. E c’è il processo penale, rigorosamente ricostruito sulle trascrizioni degli atti, che nel 1957 vide imputato Ferlinghetti, editore di Howl, per linguaggio osceno.

Chissà se come James Franco, appassionato cultore di Ginsberg prima che suo interprete, i nostri giovani studenti di letteratura, e non solo quelli, saranno altrettanto interessati alla genesi di questo caposaldo della poesia moderna, inaspettatamente assolto da un giudice repubblicano che, decretandone “l’importanza sociale e riedificante”, di fatto lo consacrò urbi et orbi. Nella ricostruzione del processo c’è tutta l’America bacchettona dell’epoca, con i suoi patetici tentativi di dare un’impossibile definizione a concetti come poesia e oscenità. C’è lo sbigottimento e, insieme, l’incapacità di decifrare non solo e non tanto il poema ma l’oggetto stesso del poema, e cioè il tradimento del sogno americano. Magari ci fosse oggi nel mondo, e segnatamente in Italia, qualcuno capace, come Ginsberg, di vivisezionare il corpo di una società in disfacimento e indicare la strada della ribellione ai giovani intorpiditi dal falso sogno berlusconiano.