Cronaca

Il fratello di Naomi

Berlusconi, D’Alema, Fini? Non interessano a nessuno. Antonveneta? Una scrollata di spalle. L’intervista al terrorista islamico? Che triste.

Il mestiere del giornalista ha un vantaggio. Quando esci la sera hai già belli e pronti una serie di aneddoti per attirare l’attenzione degli amici. Ogni cronista ha i suoi, sempre gli stessi, come un attore che con gli anni accumula un certo repertorio, battute sempre più consunte condite da qualche dettaglio ammiccante.

Così anch’io so come fare per mettermi al centro dell’attenzione (o almeno provarci). Ormai mi sono fatto una scaletta. E ho capito che cosa interessa davvero. La politica e la corruzione sono un genere di nicchia, anzi, alla fine della serata rischia pure di scapparci una lite con il sinistro organico che non riesce ad ammettere che anche i suoi rubino; oppure il berlusconiano doc che dopo qualche bicchierino non si vergogna di dire che sì, lui ammira il Cavaliere e i giudici sono tutti comunisti. Allora, per evitare di rovinare una bella serata meglio mantenersi sul genere neutro. Ormai l’ho capito: dei guai dell’Italia frega poco a tutti, e, vi dirò, anch’io dopo una giornata di lavoro non me la sento di farmi venire il mal di fegato a parlare di come tutti rubino.

La nera tira molto di più: ma secondo te quello era davvero colpevole? Ma tu che l’hai conosciuto… dicci che tipo è? E tu, cronista, ti pettini da esperto e fai finta di aver capito tutto anche se spesso è vero il contrario: più conosci una persona, meno rischi di capire nella sua storia. Non so perché, forse semplicemente ti rifiuti di credere che la persona che hai davanti possa essere davvero un assassino. Ti fa paura pensare che la mano che hai appena stretto potrebbe aver ucciso qualcuno. E poi… chissà… alla fine, e non è un male, in ogni persona che hai davanti riconosci un uomo, provi una qualche forma di simpatia… penso al senso primo della parola… patisci, senti la vita insieme con lei.

E lo stesso racconti, anche se ti sei già sentito mille volte ripetere lo stesso aneddoto. Lo fai, appunto, perché ti piace essere ascoltato o, magari, per liberarti un po’ del peso che quella storia ti ha lasciato dentro.

Però… però alla fine so sempre dove vado a finire con i miei racconti: a quella sera che, appena assunto al Messaggero, fui chiamato a sostituire Salvatore Taverna, il giornalista esperto di mondanità e moda. Quella volta che senza neanche capire perché, dopo una giornata a seguire il consiglio comunale di Roma, mi trovai catapultato allo stesso tavolo con Valeria Mazza ed Eva Herzigova e poi con Daryl Hannah e Valerie Campbell, la mamma di Naomi. Sì, alla fine arrivo sempre lì, oppure alle mezze battute strappate in una faticosa intervista con Cameron Diaz. E allora tutti si mettono d’accordo: democratici e berlusconiani, laici e cattolici, perfino uomini e donne.

Sono sempre le stesse domande: ma dimmi come sono da vicino? Ma se la tirano? E come è finita davvero?

Ripeto ogni volta le risposte che so a memoria, gli amici vogliono farsi ripetere la solita storia trita e ritrita. Ma perché? Sembra quasi che attraverso di me si possa arrivare a quelle donne, quasi ad accarezzarle, ad afferrarne il mistero.

Io glisso sul mio imbarazzo di allora. Sorrido ammiccante. Lascio intuire quello che ovviamente non è. Ma anch’io alla fine ripeto la storia per lo stesso motivo: c’è qualcosa di difficile, impossibile da spiegare e da raccontare nella bellezza. Un mistero, appunto, per cavarmela con una parola vaga e insieme insignificante. Perché un giornalista, una persona che vive di parole, dovrebbe cercare di essere preciso, di non rifugiarsi in termini tipo “intrigante” che vogliono dire tutto e niente.

Però… però spesso mi sono chiesto una cosa: come devo comportarmi quando il lavoro mi porta a incrociare una donna bella, ma proprio bella? Di più: come devo descrivere la bellezza perché il lettore la capisca, anzi, la veda?

Non parlo del desiderio, ma proprio della bellezza. Di quelle rare volte in cui ti dicono: tra poco arriverà Sophie Marceau, e tu ti accorgi che nel tuo cervello quel nome non corrisponde a una persona, ma a un’idea, alla ragazzina del tuo “Tempo delle mele”. Così, prima che si apra la porta della stanza, ti accorgi che dentro di te ti porti un’impressione del tutto priva di concretezza e di dimensioni. Una donna che non ha età e ti pare di un’altezza da rivaleggiare con i grattecieli. Che in qualche modo conosci e ti ha accompagnato negli anni. Poi la porta si apre e ti senti affetto da una specie di strabismo, come se stentassi a mettere a fuoco l’immagine. L’idea si sovrappone alla figura che si fa avanti e ti stringe la mano. Ecco, proprio in quel momento, nel breve contatto, la fantasia si scioglie per sempre e lascia lo spazio alla vita.

Allora ti chiedi come comportarti, come guardarla, se con gli occhi dell’adolescente o con quelli del giornalista. Per un istante sei preso da una leggera forma di dissociazione, ma alla fine eccotela davanti Sophie Marceau, alta meno di te, con due mani, due braccia, due gambe. Una donna, insomma. E qui, ma questo è uno stato d’animo tutto maschile, per un attimo pensi che tu sei molto più forte di lei, fisicamente intendo. No, non c’entra nessuna idea di sopraffazione, è soltanto un modo di misurare i rapporti che gli uomini dall’infanzia non riescono mai a togliersi di dosso. Chissà, forse è anche una forma di insicurezza, un modo per difendersi da una persona che esercita nei tuoi confronti un potere che non riesci a contrastare.

La bellezza… appunto. Ma qui non voglio parlare davvero di desiderio. E’ un altro discorso. Ma allora, come affrontare la bellezza, come raccontarla?

Fare il giornalista un poco aiuta, hai un ruolo, uno schermo. Può valere nei confronti di un politico, di un imprenditore, però di fronte alla bellezza mostra i suoi limiti. Entrano in gioco tanti altri fattori più profondi, prima di tutto la vanità. Insomma, devo in qualche modo colpirla, come lei ha colpito me. E intanto vi sedete… di nuovo, come per una forma di autodifesa, ti metti a squadrarla, come faresti per un’intervista a un Cicchitto qualsiasi, cercando in lei qualche difetto o almeno qualcosa di umano: una ruga, o semplicemente i peli sulle braccia, i capillari negli occhi, che ne so… i denti appena accavallati.

Ma no, non va bene, quando parli con Cicchitto cerchi davvero di capire la persona che hai davanti (per quanto possa sembrare difficile), invece adesso sei tutto concentrato su te stesso, su come hai accavallato le gambe e come tieni la penna. A questo punto gli atteggiamenti, e poi i modi di scrivere, sono diversi: c’è l’approccio ammirato, complimentoso, tipo lumacone. Lei, Sophie, ti osserva e aspetta rassegnata che da te esca la solita frase: “Lei mi ricorda la mia adolescenza”. No, non glielo devo dire. Allora io propendo per il secondo approccio, iper-professionale: insomma, la intervisto come ho fatto poche ore prima con l’assessore al Traffico. Ci manca poco che le chieda se intende dare le multe alle auto in seconda fila. Il risultato è che dai l’impressione – giustificata – del vecchio zitello. Parli e nella testa ti ronzano le mille domande che le vorresti fare davvero e che magari lei davvero vorrebbe farsi fare.

Già, sarà pure banale dirlo, ma la bellezza che attira tutti, alla fine ti complica la vita, ti rende sola. Finisce magari per cambiarti il carattere: ti senti sempre trattata soprattutto come una donna bella e alla fine soltanto questo di te percepisci. Ti dimentichi del resto, lo lasci morire.

Intanto passano i minuti e ti arrendi. Anzi, non vedi l’ora di andartene per dare un taglio all’agonia e lasciare finalmente che la realtà si ritragga e lasci di nuovo spazio all’immaginazione. Insomma, che tu possa in qualche modo riappropriarti di quella persona togliendole le sua vita.

E alla fine quasi ringrazi l’immancabile segretaria in tailleur che entra nella stanza e ti mostra l’orologio: il tempo è finito. Ti alzi, saluti con l’impressione chiara che tu ti ricorderai questo momento, mentre lei no, tra mezzora farà fatica a ricordarsi la tua faccia.

Così ti ritrovi al giornale, in mezzo ai colleghi, davanti alla solita tastiera e ti guardi gli occhi riflessi nel computer. Adesso che cosa scrivo? Di nuovo il dilemma si propone: parlare di Sophie, Valeria, Eva, Daryl, come un adolescente in crisi ormonale o un cronista di giudiziaria.

Allora cerco di raccogliere le energie e di essere lucido, provo a trovare le parole giuste per descrivere la bellezza. Partiamo dagli occhi: magici? Ma no, porca miseria, devo essere preciso. Verdi, va bene, ma anche mia zia di novant’anni li ha verdi. Pensaci meglio: lucidi, direi, perché dà l’idea della vita. Perché sa di freschezza. E le ciglia? Lunghe? Troppo facile. E le gambe? Il lettore se le aspetta, almeno un accenno. Allora ti alzi e vai a prenderti un caffè. Torni al tavolo e riprovi, ma dalle tue dita escono frasi da discount letterario (niente di peggio di un cronista che si pettina da poeta). Via, altro caffè. Forse la via d’uscita è descrivere i gesti: quello sguardo diretto, di una persona abituata a essere guardata, e però non sfrontata. Oppure le mani che muovevano la gonna su e giù, quasi per un’abitudine a mostrarsi, ma con un residuo di pudore. Ancora: quel modo di sedersi così simile a quello della ragazza al bar e però diverso, perché lei sa di non essere soltanto una persona, ma anche un’idea. O il gesto rapido della testa per scrollarsi i capelli dalla fronte. Sì, proviamo così, che sia poi il lettore a pensare di trovarsi davanti a lei, che immagini i suoi capelli, gli occhi che ogni tanto fuggono verso gli angoli della stanza.

Descrivere la bellezza: poche cose sono altrettanto rivelatrici di chi scrive. Provate a fare un esperimento. Prendete un’intervista a un’attrice e leggetela senza guardare la firma. Basteranno poche righe per capire se l’autore è un uomo o una donna. Il giornalista alla fine indugia sempre sui dettagli, è più pesante, a volte quasi greve, tradisce la sua impressione, il desiderio. Ci mette qualche aggettivo di troppo, un pizzico di compiacimento, una strizzatina d’occhio quasi a lasciar intendere una confidenza, un rapporto privilegiato. La donna no, però si lascia sempre scappare una frase che tradisce il senso di confronto. Alla fine tutti saranno condizionati dalla bellezza. Tutti in fondo racconteranno di se stessi. Pochi, pochissimi riusciranno a descrivere la persona che si sono trovati di fronte.

E io? Dopo quella sera al tavolo con Valeria Mazza ed Eva Herzigova me ne tornai al giornale con il taccuino vuoto. Mi ero dimenticato di prendere appunti. Non che si fosse parlato della pace nel mondo, però forse qualche frase meritava di essere annotata. Ne uscì fuori un articolo di venti righe, raccontavo di Eva che alla fine della festa ballava in mezzo al ristorante. Oppure di Daryl Hannah che si alzò dal tavolo nel suo vestito lungo che la faceva sembrare alta come i palazzi di piazza Farnese. Con quei capelli che rendevano liscio e luminoso tutto il mondo intorno. Non l’ho mai riletto, per pudore.

La fine di quella serata, però, non l’ho (quasi) mai raccontata. Eravamo lì in piazza Farnese, Valerie, la giovane madre di Naomi, Pierre suo figlio di sei anni, ed io. Aspettavamo la diva, Naomi. Alla fine da una stradina laterale sbucò una limousine nera: la porta posteriore si aprì e Valerie ci si lasciò cadere dentro. Poi la Mercedes sgommò via. E io me ne rimasi lì, con Pierre Campbell che correva come un matto per la piazza. Dio, se l’erano dimenticato. Che fare? Cercai nel mio repertorio di favole qualcosa da raccontargli, ma lui sembrava impazzito di gioia a fare lo slalom tra i turisti. Alla fine mi venne incontro: “Devo fare la pipì”. In una città come Roma in una notte d’estate si può fare di tutto, ma alle quattro del mattino la pipì in piazza Farnese non sai dove farla. Mi guardai intorno, niente. Ma Pierre aveva già trovato una soluzione: si avvicinò a una fontana e fece quello che doveva fare. Fu in quel momento che un carabiniere di guardia all’ambasciata francese mi venne incontro: “Scusi non si può urinare nella fontana”. Io non so fare finta di niente, a scuola mi beccavano subito quando rubavo una merendina. Il carabiniere ci mise un attimo per capire che qualcosa non quadrava. “Questo bambino è suo figlio?”, mi chiese. Lo avrei strozzato. Mi prese il panico: che fare? Mentire? Ma per dire che cosa? Alla fine dissi la verità, era così assurda che poteva sembrare credibile: “No, il fratello di Naomi Campbell”. Già mi vedevo le porte della Questura che si spalancavano, mi immaginato seduto vicino ai soliti ubriachi raccattati dalle volanti di notte. Roba da sequestro di persona. Un bambino, poi. Lui, Pierre, non mi veniva incontro, non spiccicava una parola in italiano, guardava felice la gazzella dei carabinieri con la sirena blu. Ma il Dio dei giornalisti mi diede una mano: ecco di nuovo la limousine. La porta si aprì e una guardia del corpo fece un gesto al bambino. Pierre ritornò alla sua vita di feste e io corsi veloce nel mio monolocale sgangherato di cronista. Più facile intervistare un assessore.