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‘Ai miei figli posso dare solo poca marmellata e qualche patatina. L’invasione ci ha tolto tutto’: Ramadan a Gaza, senza cibo e sotto le bombe

La vigilia del Ramadan nel centro di Rafah, nella Striscia di Gaza, quest’anno è silenziosa e spenta. Dopo aver girato tutta la mattina, Mohamed Al-Majdalawi è riuscito a trovare un barattolo di marmellata di fragole e qualche pacchetto di patatine per rendere un po’ più spensierato l’inizio del mese sacro agli occhi dei suoi quattro figli. Ieri, come da tradizione, con una parte della famiglia ha acceso le candele augurali e decorato, con quel che si trova nei mercatini, l’appartamento in cui vivono da circa un mese con altre 15 persone.

Con grande sorpresa, Mohamed è riuscito a procurarsi anche un dolce tipico al sesamo, l’halawa, che piace molto a una delle sue bambine. Riuscire a recuperare altri generi alimentari nella Striscia, però, sembra essere diventato impossibile da quando sono iniziati i bombardamenti israeliani: “Per colazione avrei voluto mangiare del formaggio o del laban (yogurt fermentato molto diffuso in tutto il Medio-Oriente) con il miele o la menta. Generalmente, durante il Ramadan ci alziamo alle 3 o alle 4 di mattina e mangiamo cibi proteici e nutrienti per arrivare al tramonto, verso le 18, quando prepariamo una cena ricchissima”, spiega a Ilfattoquotidiano.it. “Quest’anno purtroppo non c’è davvero nulla. Gran parte delle persone non ha neanche il gas per cucinare. In casa nostra abbiamo ancora qualche dattero scaduto, un po’ di cibo in scatola e la farina”.

Sono introvabili persino le lucine per adornare gli ingressi di tende e abitazioni o i festoni con su scritto Ramadan kareem o Ramadan mubarak (“Che il Ramadan sia generoso”, “Che il Ramadan sia Benedetto”) con cui negli scorsi anni erano decorate le strade di tutta la Striscia di Gaza. “Habibi, a dire la verità non abbiamo niente da festeggiare. Con mia moglie proviamo a essere forti per i nostri figli e familiari, ma l’invasione ci ha tolto davvero tutto”, racconta il cooperante ormai rassegnato all’idea che i combattimenti continueranno anche nel mese sacro.

“Celebrare significa stare in famiglia, essere felici, stringersi ai più cari. Con la maggior parte dei miei parenti a nord, tra cui mamma e fratelli, posso dire solo che questo è il Ramadan più triste della mia vita”. Dall’ inizio dell’offensiva militare israeliana a Gaza, Mohamed ha perso 77 membri della sua famiglia, tra cui una sorella e un nipote di 14 anni. Quando sono iniziati i bombardamenti nel campo profughi di Jabalya, a ottobre, il volontario ha deciso di scappare con la propria famiglia in un luogo più sicuro, mentre l’intera area veniva rasa al suolo causando stragi di civili come quella del 31 ottobre 2023, in un mercato densamente popolato, dove sono morte oltre 50 persone a causa dei raid dell’aviazione di Tel Aviv.

“Ci siamo separati tutti, mia mamma è ancora a Jabalya con tre sorelle e due fratelli, altre due sorelle sono a Deir el Balah, nel centro della Striscia, e una ad Al-Mawasi, sulla costa. Le nostre cene negli scorsi anni avevano 30-40 persone fisse”, spiega Mohamed con la voce che trema. “Al nord non hanno nulla. Nulla. Non penso che i miei parenti potranno celebrare il Ramadan, sono troppo deboli. Qualche giorno fa ho sentito mio fratello, aveva mangiato due limoni in due giorni, stava malissimo. Ho pianto tutta la sera”.

Oggi, per quanto possibile, il cooperante e la moglie si sono impegnati a rendere l’atmosfera più leggera, per passare il tempo con i propri figli in armonia. In sottofondo i bambini schiamazzano in giro per la casa insieme ad alcuni amichetti delle case accanto, ritrovando un momento di spensieratezza in un contesto violento a cui si sono ormai abituati: “Come padre, mi strazia pensare che i miei figli credano che questa sia la normalità. Vedere la gente morire, sentire costantemente il suono dei droni o dei bombardamenti, vivere accontentandosi”, sospira Mohamed che da giorni è alla ricerca di medicinali per le sue due figlie Soso e Heba, in cura rispettivamente per epilessia e per una malattia alle gambe. Soso è stata anche in cura all’Ospedale Bambin Gesù di Roma dove dovrebbe tornare al più presto per un nuovo appuntamento di controllo. Per aiutare la sua famiglia, come tanti cittadini a Gaza Mohamed ha lanciato una raccolta fondi con l’obiettivo di uscire dall’enclave. “Non mi do pace per loro, qui non c’è futuro. Quando mi chiedono un dolcetto o delle patatine devo dirgli di no perché non abbiamo abbastanza soldi. Mio figlio più grande, di otto anni, quasi non si fida più di me perché è da mesi che mi chiede un po’ di carne, ma è impossibile trovarla”.

Dopo essere scappati sei volte dalle bombe, Mohamed e la moglie sono arrivati al mese sacro stanchi e disillusi: “Praticheremo il digiuno finché possibile, ma in casi estremi mangeremo”, racconta spiegando che in casi eccezionali è consentito porre fine al digiuno anche prima delle 18. Nel corso di questi mesi, non sono solamente le abitudini religiose a essere state stravolte: “Essere sereno è un ricordo lontano. Ogni giorno mi sveglio alle 5 di mattina con il pensiero di dover correre per qualche litro d’acqua e della farina. Torno alle 16 stravolto. Mi chiedo come farò questo mese. Ogni tanto penso al caffè che ogni mattina prendevo sul portico di casa, leggendo il giornale e fumando una sigaretta. Oggi un pacchetto viene 250 shekel (60 euro) e un chilo di caffè quasi 400 (100 euro)”.

Una condizione che colpisce tutta la Striscia di Gaza, che passerà il Ramadan sotto le bombe, almeno fino a un apparentemente lontano cessate il fuoco. “L’occupazione ci ha tolto tutto. Ci ha privato delle famiglie, della normalità nel celebrare le nostre feste religiose in serenità e in alcuni casi anche dell’umanità. La gente è diventata più cattiva, ma come dargli torto? C’è chi vive in condizioni peggiori, senza più nessuno accanto”. In tutta la tristezza e la violenza, però, la serenità di questa giornata sembra aver riportato il sorriso sul volto di Mohamed. “L’altro giorno scherzavo con mia moglie. Viviamo con altre persone da quasi due mesi e da allora non ho mai visto i suoi capelli non togliendo mai l’hijab. Le ho detto che ormai è diventata mia sorella”, ride con la speranza di poter riabbracciare presto i propri cari dall’altra parte della Striscia e di ritornare alla normalità.