Mafie

“Chiesa nostra”, il documentario sui rapporti tra boss e potere religioso: così tra “inchini” e coperture i parroci normalizzarono i clan

“Cosa ha contribuito allo strapotere della mafia? Un clima generale, un contesto di connivenze in cui non puoi non pensare all’atteggiamento tenuto dalla Chiesa”. Francesco La Licata dà la chiave di lettura di “Chiesa nostra”, il documentario scritto assieme al regista Antonio Bellia, proiettato in anteprima martedì 5 marzo al cinema Rouge et Noir di Palermo. Parlando col fatto.it poco prima della proiezione, La Licata, esperto di Cosa nostra e per molti anni inviato della Stampa a Palermo, snocciola alcuni dei riferimenti storici che legano la Chiesa al fenomeno delle cosche, svelando alcuni dettagli: “C’erano famiglie mafiose che, grazie alle generose donazioni, avevano il proprio nome nelle panche delle prime file”. Così, seduti fianco a fianco sotto il pulpito e il crocifisso, “trovavi i vertici mafiosi e quelli politici”. Un’immagine che rimanda con forza a quel clima di accettazione sociale del potere mafioso al quale la Chiesa contribuì, concedendo ai boss i riti e gli “inchini” delle statue alle processioni. Una sala pienissima, nel cuore del capoluogo siciliano, ha potuto così ripercorrere una lunga storia di vicinanza tra l’istituzione religiosa e il potere criminale, attraverso testimonianze di docenti universitari, vescovi e magistrati. Il tutto intervallato da inserti del noto drammaturgo Pippo Delbono che dà voce e corpo ai capimafia, perché, come spiega il regista Bellia, “è importante restituire un contesto che negli anni si trasforma”.

Delbono interpreta anche la famosa lettera in cui il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo dal 1946 al 1967, minimizzava il fenomeno mafioso: si tratta di uno dei momenti chiave nel disvelamento della relazione tra la Chiesa e le cosche. Succedeva dopo la strage di Ciaculli del 30 giugno del 1963, quando un’autobomba uccise quattro carabinieri, due militari dell’esercito e un maresciallo di polizia vicino all’abitazione del boss Totò Greco. La mafia, così, cominciava a colpire al cuore lo Stato e a sconvolgere le coscienze. Tanto che la Chiesa valdese, con il pastore Pietro Valdo Panascia, condannò pubblicamente l’attentato. Così anche il Vaticano chiese a Ruffini una presa di posizione. “Conoscevo già il manifesto pubblicato dal pastore valdese. Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della così detta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro, specialmente fuori dell’isola di Sicilia, dai socialcomunisti, i quali accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata dalla mafia”, rispose lui.

Insomma, Bellia e La Licata in “Chiesa nostra” raccontano lo spauracchio comunista usato come collante tra ecclesiastici e mafiosi. Un clima di convivenza se non di vero e proprio favoreggiamento, “come nei casi di fra’ Giacinto o di padre Frittitta”, ricorda il giornalista. A Stefano Castronovo, conosciuto da religioso come fra’ Giacinto, e con la ‘nciuria (il soprannome) di fra’ Lupara, faceva spesso visita il boss Luciano Liggio: in convento, l’ecclesiastico viveva in una suite di sette lussuose stanze. Fu poi ucciso in circostanze non chiarite (secondo Sciascia si trattò di una vendetta di mafia, perché era diventato un infiltrato delle forze dell’ordine). Mentre padre Frittitta, parroco nel quartiere della Kalsa, fu accusato di avere favorito la latitanza del boss Pietro Auglieri: venne scagionato perché la Cassazione interpretò gli incontri col boss come parte di percorso religioso verso la redenzione. Dopo l’assoluzione il parroco tornò alle sue attività nel quartiere palermitano, in cui era molto amato. Mentre furono addirittura tre i preti a celebrare il matrimonio di Totò Riina e Ninetta Bagarella. I mafiosi potevano dunque contare sulla ritualità sociale che li rendeva non solo accettabili, ma perfino potenti agli occhi della comunità.

Questa è la storia ricostruita nel documentario, una storia che però subisce alcune importanti svolte. La prima fu quando papa Woytila, dopo l’omicidio del giudice Rosario Livatino, da Agrigento lanciò il suo anatema contro i mafiosi: “Una volta Dio ha detto: non uccidere. Nessuna mafia può cambiare e calpestare questo diritto santissimo di Dio. Nel nome di Cristo crocifisso e risorto mi rivolgo ai responsabili: convertitevi”. Era il 9 maggio del 1993 e la mafia aveva raggiunto il picco di una violenza che non poteva più essere ignorata: “Il clima cambiò quando la mattanza fu sotto gli occhi di tutti”, spiega La Licata. “A quel punto arrivarono anche i preti di frontiera”. Come padre Pino Puglisi, il prete di Brancaccio che si impegnò per il recupero sociale del quartiere e fu ucciso dalla mafia il 15 settembre del 1993.

L’ultima svolta nel rapporto tra Chiesa e mafia è arrivata con Papa Francesco, che nel 2014, da Sibari, in Calabria, ha lanciato la scomunica per i mafiosi. L’attuale pontefice, però – ripercorre il documentario – ha molti nemici all’interno dell’Istituzione ecclesiastica, mentre restano i misteri sulle attività dello Ior, la banca vaticana accusata di riciclare il denaro sporco dei clan. Al termine della proiezione c’è tempo per gli interventi del pubblico: in platea ci sono anche il presidente della commissione Antimafia siciliana, Antonello Cracolici, e l’ex sindaco di Palermo, Leoluca Orlando. È lui a prendere il microfono per ricordare che Matteo Messina Denaro “non ha voluto funerali religiosi”, il segno di un rapporto ormai interrotto. Dopo la proiezione accolta con calore al Rouge et Noir, il documentario non ha ancora altre date di distribuzione: “La produzione è al lavoro”, spiega Bellia. Mentre dal palco si sottolinea l’importanza del passaparola.