Società

Ciascuno può fare qualcosa: un’agenda di pace per l’anno che si apre

Il 2023 si era aperto con la sostituzione della parola “vittoria” alla parola “pace” in preparazione della “controffensiva” di primavera – col corollario di accuse di filoputinismo a chi metteva in dubbio quella narrazione – e si è chiuso con il fallimento della strategia militare per risolvere il conflitto russo-ucraino, che lascia sul campo una generazione di giovani europei (già in agosto il New York Times stimava complessivamente 500.000 morti), mentre nuove chiamate alle armi si susseguono dall’una e dall’altra parte per continuare una guerra che nessuno può vincere.

Come se non bastasse, a questa e alle altre decine in corso nel mondo, si è aggiunta la recrudescenza della guerra in Palestina innescata dalla strage di Hamas del 7 ottobre, alla quale ha fatto seguito il massacro continuo dei civili palestinesi: una vendetta senza fine.

Eppure l’avvento della cristianità, avvenuto proprio in Palestina, aveva portato la parola nuova – per quanto poco praticata – a correzione dell’antica: “Avete udito che fu detto: ‘Occhio per occhio e dente per dente’. Ma io vi dico: non contrastate il malvagio; anzi, se uno ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi vuol prenderti la tunica, lasciagli anche il mantello”. Ma duemila anni dopo anche il precetto antico – che pure “rende il mondo cieco”, avverte Gandhi – è tornato ad essere desiderabile come principio di moderazione e proporzionalità della reazione.

Invece, superato ampiamente il rapporto di uno a venti tra le vittime subite e quelle della rappresaglia in corso, ciò che il governo israeliano sta facendo a Gaza non solo non trova giustificazione nel diritto internazionale, ma neanche nel libro sacro sul quale lo stato ebraico si fonda. E il programma israeliano di intelligenza artificiale che genera automaticamente bersagli da bombardare, come il campo profughi nella notte di Natale, è chiamato Habsora, ossia… “Vangelo” (Yuval Abraham, La fabbrica della morte, +972Magazine).

Lo stesso papa Francesco ha ribadito anche il giorno di Natale che è necessario dire ‘no’ a ogni guerra, “alla logica stessa della guerra, viaggio senza meta, sconfitta senza vincitori, follia senza scuse”, specificando che per dire ‘no’ alla guerra bisogna dire ‘no’ alle armi: “Come si può parlare di pace se aumentano la produzione, la vendita e il commercio delle armi? La gente, che non vuole armi ma pane, ignora quanti soldi pubblici sono destinati agli armamenti. Eppure dovrebbe saperlo! Se ne parli, se ne scriva, perché si sappiano gli interessi e i guadagni che muovono i fili delle guerre”. Quella di Bergoglio è una denuncia sempre più precisa contro armamenti, spese militari e media conniventi, con parole ben più incisive di quelle prudenti del presidente Mattarella nel discorso di fine anno, che ricordano quella di Günther Anders nell’intervista del 1984 pubblicata da poco in italiano: “Ho mostrato esplicitamente come l’industria non produca armi per le guerre, ma guerre per le armi. Come essa abbia bisogno della guerra per assicurare il consumo dei suoi prodotti, come non possa ‘vivere senza uccidere’.” (Opinioni di un eretico, 2023).

Di fronte a questo scenario terrificante, i pacifisti non possono trattare la guerra come emergenza intermittente perché è ormai un dato permanente e globale che si va intensificando anno dopo anno, rispetto al quale è necessario ribaltare l’agenda sul tavolo. Si tratta di andare oltre l’indignazione rispetto ai massacri perpetrati nei diversi conflitti armati e agire su tutta la filiera della violenza che prepara, giustifica e realizza le guerre. Ossia ribaltare culturalmente e politicamente il falso e irrazionale adagio “se vuoi la pace prepara la guerra” per sostituirlo con il nuovo paradigma: se vuoi la pace prepara la pace, costruendo mezzi di pace.

Eccone i più urgenti per l’anno che si apre, punti essenziali per un’agenda di politiche attive di pace: disarmo e riconversione sociale delle spese militari; controllo degli armamenti e riconversione civile dell’industria bellica; costituzione dei corpi civili italiani ed europei di pace; approntamento della difesa civile, non armata e nonviolenta; sottoscrizione del Trattato per la messa al bando delle armi nucleari.

Agenda alla quale vanno aggiunti i saperi della nonviolenza da coltivare e promuovere per risolvere i conflitti in corso: quelli dei mediatori per avviare percorsi di de-escalation e quelli degli obiettori di coscienza, come i tanti giovani russi, ucraini e israeliani, di cui l’ultimo, Tal Matnick, ha 18 anni ed è in galera perché rifiuta di collaborare al massacro dei palestinesi; quelli della resistenza civile non armata che, come dimostra Erika Chenoweeth nella ricerca pubblicata anche in Italia, è più efficace di quella armata e quelli della riconciliazione praticata dai “gruppi misti”, dalla ex Jugoslavia ai Parents circle in Israele e Palestina; fino a quelli del giornalismo, della cultura e dell’educazione di pace, per contrastare l’ideologia bellicista che ormai ammorba il discorso pubblico.

Si tratta, insomma, di agire contemporaneamente e con continuità su più livelli, in collegamento con le campagne nonviolente, perché nessun impegno è più essenziale di questo per la sopravvivenza di tutti. Rispetto al quale ciascuno può fare qualcosa, ovunque.