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Thailandesi in fuga e palestinesi ‘pericolosi’: Israele importa manodopera dal Sud globale. “Ma non garantisce loro sufficienti diritti”

La guerra a Gaza, scoppiata dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, ha provocato non solo timori per la sicurezza nel Paese, ma anche un esodo verso Israele che lo stesso ‘Stato ebraico’ sta incoraggiando con insistenza: quello dei lavoratori migranti reclutati dal Sud globale, in arrivo per colmare il vuoto di campi e cantieri. Sri Lanka, India, Malawi, Kenya. Dall’inizio della guerra Tel Aviv ha stipulato accordi con diversi Paesi per importare manodopera a basso costo da impiegare in agricoltura, assistenza domiciliare e costruzioni. Tutti campi che anche prima del 7 ottobre erano dominati da lavoratori stranieri sottopagati e socialmente emarginati: thailandesi e filippini nei primi due settori, palestinesi della Cisgiordania nel terzo.

“Negli anni Novanta, dopo la prima Intifada, il governo ha fatto una scelta strategica e ha cominciato a fare affidamento su lavoratori migranti per svolgere questo tipo di attività usuranti”, racconta a Ilfattoquotidiano.it Matan Kaminer, antropologo e ricercatore presso la Hebrew University di Gerusalemme. “L’agricoltura israeliana nello specifico è fortemente dipendente dalla forza lavoro thailandese”, continua sottolineando che negli anni Israele ha goduto di un flusso costante di braccianti arruolati con contratti da cinque anni e senza possibilità di rinnovo, “così da mantenere costante la maggioranza demografica della popolazione di etnia ebraica”.

Dopo l’attacco di Hamas, però, dei 30mila thailandesi attivi nei campi al confine con la Striscia 39 sono stati uccisi e 10mila hanno scelto di rimpatriare per sfuggire al trauma della guerra, compresi i 17 ostaggi liberati dal gruppo armato palestinese che li aveva rapiti. Di chi vive in Cisgiordania invece, Tel Aviv non si fida più. Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro dell’Onu, dall’inizio del conflitto nel territorio palestinese sono stati persi 208mila posti di lavoro e i checkpoint verso Israele rimangono inaccessibili.

È in questo contesto che martedì 19 dicembre è atterrato il primo drappello di cittadini cingalesi che andranno di fatto a rimpiazzare la forza lavoro palestinese in Israele. L’accordo bilaterale firmato in fretta e furia con Colombo il mese scorso prevede l’invio di 20mila lavoratori migranti che andranno a rimpolpare il settore delle costruzioni. Come loro, nelle scorse settimane il Malawi ha mandato 200 persone, mentre dal Kenya ne arriveranno 1.500. In India, invece, i sindacati hanno protestato contro la decisione dello Stato nordico dell’Haryana di mettere a disposizione di Tel Aviv 10mila operai. A questo proposito la Federazione dei lavoratori delle costruzioni ha organizzato il 22 dicembre una manifestazione per contestare il reclutamento dei cittadini indiani, considerato un’operazione “immorale” che supporta un “governo genocida”.

A preoccupare sono anche le condizioni in cui questa categoria di lavoratori si trova a operare. “I lavoratori migranti sono un privilegio. Un Paese che chiede alle persone di venire qui dovrebbe prendersi cura di loro, ma questo qui non sempre accade”, racconta a Ilfattoquotidiano.it Assia Ladizhinskaya, portavoce dell’associazione israeliana per la tutela dei diritti umani Kav LaOved, da oltre 30 anni vicina ai lavoratori stranieri attivi nel Paese. “I contratti ci sono, ma non vengono rispettati. Il problema è sistemico anche nelle situazioni più favorevoli: stipendi da fame, straordinari non pagati, episodi di caporalato, condizioni abitative inadatte e una mancanza di attenzione generale per la componente umana di queste professioni”, spiega ancora Ladizhinskaya, sottolineando con ironia tragica che il dipartimento della Knesset che si occupa della tutela dei lavoratori migranti in caso di molestie si chiama ‘Comitato per i lavoratori stranieri problematici’.

Anche a fronte di questa problematicità, Israele rimane una meta attrattiva per i lavoratori migranti menoabbienti. “È importante che i nuovi arrivati siano a conoscenza dei loro diritti e che siano preparati per il complesso contesto che li aspetta”, commenta ancora Ladizhinskaya augurandosi che in questo rimpasto i palestinesi non rimangano completamente rimpiazzati e senza tutele.