Mafie

‘Ndrangheta, condanna a 30 anni per il boss Luigi Mancuso e un imprenditore: “Così i clan facevano affari col petrolio”

Trent’anni di carcere al boss di Limbadi Luigi Mancuso e all’imprenditore Giuseppe D’Amico. Sei anni e un mese di reclusione ad Anna Bettozzi, conosciuta come “Ana Betz”. E un anno, con pena sospesa, a Salvatore Solano, ex presidente della Provincia di Vibo Valentia e attuale sindaco di Stefanaconi. Complessivamente, il processo Petrolmafie si è concluso con 35 condanne e 24 assoluzioni. È arrivata oggi la sentenza del Tribunale di Vibo Valentia al termine del processo nato da un’inchiesta, coordinata dalla Dda di Catanzaro, che ha dimostrato l’interesse della cosca Mancuso negli affari legati al petrolio.

L’indagine è stata condotta dal Nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza e dai carabinieri Ros che, nel 2021, avevano arrestato 56 persone su disposizione del gip che aveva emesso un’ordinanza di custodia cautelare su richiesta dell’ex procuratore Nicola Gratteri e dei sostituti Andrea Mancuso, Annamaria Frustaci e Antonio De Bernardo. Associazione di stampo mafioso, associazione per delinquere finalizzata a commettere delitti di estorsioni, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita in attività economiche, intestazione fittizia di beni, evasione delle imposte e delle accise anche mediante emissione ed utilizzo di fatture per operazioni inesistenti, contraffazione ed utilizzazione di documenti di accompagnamento semplificati: questi i reati contestati, a vario titolo, agli imputati che, secondo i pm, avrebbero commesso “al fine di agevolare le associazioni ‘ndranghetistiche attive sul territorio calabrese”.

Nonostante la condanna per le varie violazioni in materia di imposte, l’aggravante è caduta per Anna Bettozzi, la vedova del petroliere Sergio Di Cesare che era stata coinvolta anche nel filone romano dell’inchiesta sul traffico di prodotti petroliferi. La pena più pesante, 30 anni di carcere, è stata inflitta al boss Luigi Mancuso, detto il “Supremo” e considerato il capo del crimine vibonese. La sua posizione in questo processo comprende anche le contestazioni che la Dda di Catanzaro gli ha mosso nell’ambito dell’inchiesta Rinascita-Scott dove erano emersi i suoi rapporti con l’ex senatore di Forza Italia Giancarlo Pittelli, recentemente condannato a 11 anni di carcere.

La stessa pena decisa per Mancuso, il Tribunale di Vibo l’ha inflitta all’imprenditore del carburante Giuseppe D’Amico mentre il fratello Antonio è stato condannato a 18 anni e 10 mesi. A dieci anni, inoltre, è stato condannato l’altro esponente di spicco della ‘ndrangheta Francesco Mancuso alias “Tabacco”. Con l’inchiesta Petrolmafie, la Dda di Catanzaro ha fatto luce sul business dell’illecita commercializzazione di carburanti e del riciclaggio per milioni di euro in società petrolifere intestate a prestanome.

In attesa delle motivazioni del Tribunale di Vibo, restano le considerazioni fatte dal gip nell’ordinanza di custodia cautelare dove si legge: “Il quadro che ne fuoriesce ha certamente il pregio di restituire uno spaccato assolutamente allarmante della compenetrazione della ‘ndrangheta nel mondo dell’imprenditoria, perpetrata attraverso l’uso di metodologie, per certi versi, meno violente del tipico agire mafioso, ma comunque particolarmente insidiose, che vedono l’attivo coinvolgimento di numerosi imprenditori e professionisti, i quali, attraverso sofisticate pratiche fraudolente sono stati capaci di assicurare l’insinuazione del clan Mancuso in diversi settori dell’economia, riempendone le casse”.

Dalle carte dell’indagine e, soprattutto dalle intercettazioni registrate dalla Guardia di finanza e dal Ros, infatti, erano emerse “intere trattative”, che “hanno consentito di ricostruire, passo passo, come avviene l’inserimento della ‘ndrangheta nel tessuto economico, restituendo una formidabile dimostrazione degli accordi spartitori del mercato tra consorterie e dei metodi attraverso i quali la ‘ndrangheta si espande nel circuito economico”.