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NBA Freestyle | Jayson Tatum sembra un giocatore creato dall’intelligenza artificiale

Pensieri in libertà (con libertà di pensiero) sulla settimana NBA

Pillole su alcuni protagonisti del primo mese di stagione
Kevin Durant (Phoenix Suns). Il più bell’arresto a due tempi in transizione dall’epoca di Larry Bird. Tra le più letali armi offensive di sempre, in grado di segnare a piacimento e in mille modi diversi. Ha almeno 20 punti in tasca già nel momento in cui saluta la security all’ingresso dell’arena. Sta tirando da tre con quasi il 50% e mettendo a referto oltre 31 punti di media. Certo, avesse cercato meno “super team”, starebbe più simpatico a molti, ma tant’è… Quali sono i dubbi? Nelle ultime stagioni ha giocato poco causa guai fisici. Le primavere non sono poche (35) e dà l’impressione che l’infortunio sia sempre dietro l’angolo. Phoenix, poi, è andata all-in prendendo anche Beal. E non possono sgarrare, c’è pressione. Ah, i Suns in ogni caso sembrano la squadra di Booker, la cosa fa riflettere.

LeBron James (LA Lakers). “Ancora tu, ma non dovevamo vederci più?”. I Lakers non sembrano attrezzati per il “premio finale”. Ma senza dubbio tutto quello che conquisteranno in stagione dipenderà solo ed esclusivamente da LeBron James (vero Anthony Davis?). A 39 anni è ancora tra i migliori giocatori al mondo. Miglior marcatore della storia. Quarto di sempre per numero di assist (di assist…). Il dibattito tra i migliori ogni epoca è tra lui e Michael Jordan (non tra Jordan e Magic Johnson, per dire…). Quattro anelli al dito. Quattro volte MVP delle Finali. Sei volte nel miglior quintetto difensivo. Difetti? Si, ecco, forse, in carriera, ha messo un po’ troppo il becco nelle decisioni (non sul campo) delle proprie franchigie, con risultati non sempre lusinghieri. Ma che volete farci, dai, anche Dio ha creato le zanzare.

Chet Holmgren (OKC Thunder). Alto quasi 2.20, magro come un chiodo, con un’apertura alare da albatros. Il (finto) rookie Chet – nel primo mese di NBA – ha incantato perché in pochi si aspettavano fosse così pronto fin da subito. Ha una comprensione degli spazi difensivi da vero fuoriclasse. In attacco, poi, non ha paura di nulla e va al ferro con grande determinazione (anche se spesso va sotto fisicamente in area). Ha tanto, tantissimo tiro (43.1% da tre), può invece ampiamente migliorare come passatore. La stella della squadra è Shai Gilgeous-Alexander, per amore del cielo, ma i Thunder stanno volando e sono terzi a Ovest anche grazie a Holmgren.

Jayson Tatum (Boston Celtics). Per certi versi, sembra un giocatore creato dalla (tanto di moda) intelligenza artificiale. Fisico michelangiolesco, mani illuminate, ventaglio di soluzioni virtualmente illimitate in attacco. Tatum sta guidando la fantastica partenza dei Celtics (primi a Est) e si sta fortemente candidando al premio per l’MVP della stagione. Cosa manca? In alcune partite (soprattutto nei playoff) va fuori ritmo in attacco e non ha un tiro sicuro (tipo il fade-away jumper di Jordan, per dire) su cui appoggiarsi nei momenti difficili. Poi, in effetti, sembra creare un po’ pochino per gli altri.

Tyrese Haliburton (Indiana Pacers). Ormai è una stella. Ormai è un All-Star. Sta giocando alla Penny Hardaway (maglia Magic), rispetto al quale è un po’ meno esplosivo, ma molto più tiratore. Point-guard dai fondamentali cristallini, sempre in controllo, in grado di cambiare velocità in palleggio anche a difesa schierata. Passatore di categoria extra lusso, bravo a servire sia il taglio che il tiratore in spot-up sul perimetro. Per lui, cifre da strabuzzare gli occhi: quasi 26 punti di media, 11.9 assist e il 45.6% da tre. Una (nuova) stella.

James Harden (LA Clippers). Il fatto di aver dichiarato di “essere il sistema” e non “un giocatore di sistema” non depone a suo favore. Poteva permettersi di dirlo ai tempi degli Houston Rockets, forse. Oggi, considerato il suo declino fisico e tecnico proprio no. Peccato, perché se accettasse di essere ormai “solo” una buona point-guard con visione di gioco e mani sensibili per mettere in ritmo i compagni, potrebbe ottenere qualche risultato in termini di vittorie in una squadra, i Clippers, con tanta gente in grado di far paniere con continuità (George, Leonard). Anche perché, Harden, lontano dalla palla non ci sa proprio giocare: lo servi per un comodo tiro da fuori, ma lui comunque non tira subito, deve mettere palla a terra, perde l’attimo, per la felicità di tutti i difensori in close-out su di lui. Contento lui.

De’Aaron Fox (Sacramento Kings). A tratti, sembra Nick Van Exel, quello che ha acceso i Lakers verso la metà degli anni ’90. Playmaker mancino con due razzi al posto delle gambe. Una velocità palla in mano da brividi, ma anche un gran controllo del corpo quando cerca la soluzione a canestro. Sempre stato un giocatore un po’ monocorde, con uno stile fatto di accelerazioni e incursioni a canestro (leggasi riluttanza al tiro dalla distanza), in questa stagione Fox ha iniziato a spararla seriamente da fuori e senza alcuna pietà per i comuni mortali (incoraggiante 36.3% su oltre 8 conclusioni di media). Questo fattore lo sta rendendo difficile da marcare, perché col primo-passo che si ritrova il difensore deve solo scegliere di che morte morire: se concedergli spazio per la bomba o se marcarlo faccia a faccia. Non male le sue cifre, che dicono 30.7 punti di media, 5.8 assist e 4.8 rimbalzi. On the rise.

That’s all Folks! Alla prossima settimana.