Diritti

Il figlio di Sibilla Barbieri: “Mamma ha combattuto per la libertà di scelta. L’Asl ha fatto resistenza ed è stata costretta a morire in Svizzera”

“In quelle ore non avevamo bisogno di dire altre parole, ci eravamo già detti tutto prima. Ci bastava solo guardarci e stare insieme”. Vittorio Parpaglioni racconta così il suo ultimo viaggio da Roma alla Svizzera con la mamma, la 58enne regista romana, Sibilla Barbieri, costretta a recarsi in una clinica elvetica perché in Italia il diritto alla morte volontaria le è stato negato. E ad accompagnarla c’era il figlio 25enne insieme a Marco Perduca dell’associazione Luca Coscioni.

È la fine di un lungo percorso iniziato dieci anni fa quando Sibilla ha iniziato a fare i conti con la malattia. “Lei si è curata in tutti i modi possibili fino ad arrivare, poco prima della scorsa estate, alla conclusione degli oncologi: era ormai in stato terminale, non aveva più possibilità di cura e sarebbe deceduta nel giro di pochi mesi”, racconta Parpaglioni al fattoquotidiano.it.

Una donna che “ha sempre combattuto per la sua autodeterminazione e la sua libertà di scelta”, che arriva così a prendere una decisione. Una scelta che Sibilla comunica subito ai sui familiari: “A giugno, quando era ricoverata in clinica, abbiamo capito che non aveva più tempo e lei in quell’occasione ha detto a noi figli e ad alcuni parenti che aveva deciso di voler accedere alla morte volontaria qui in Italia”, racconta. “In quel momento ovviamente noi siamo rimasti colpiti per il fatto che lei stava morendo. Da figli questo ci ha fatto del male e ci ha creato tanto dolore ma abbiamo subito capito la sua scelta. Ne parlavamo da tempo, siamo stati educati così da nostra madre: abbiamo le stesse idee e la stessa voglia di libertà”.

Video di Alberto Sofia

La sua volontà si scontra però con le decisioni dell’azienda sanitaria. L’Asl Roma 1, infatti, ha negato l’accesso all’aiuto alla morte volontaria perché, secondo una commissione aziendale “non dipendeva da trattamenti di sostegno vitale”. “Sembrava proprio – spiega il figlio – che ci fosse un’opposizione emotiva all’interno della tragedia che già stavamo vivendo. La sofferenza era già tanta, il fatto che il nostro Stato non riconoscesse a mia madre la possibilità di morire qui a Roma ha provocato altra sofferenza per tutti noi e per lei soprattutto. L’abbiamo vissuta come un’ingiustizia. Soffrivamo perché sapevamo che sarebbe morta dopo poco tempo, ma contemporaneamente sentivamo questo peso di ingiustizia sociale che ci ha fatto soffrire molto di più. Ci ha fatto sentire esclusi”.

Sibilla Barbieri presenta ricorso contro la decisione, ma il tempo stringe. “Lei ovviamente preferiva morire a Roma, a casa sua, anziché essere fondamentalmente esiliata in uno dei momenti più importanti della sua vita”, racconta il figlio: “Ha dovuto però prendere questa scelta perché non c’era più tempo”. Così, con il sostegno dell’associazione Luca Coscioni, il 28 ottobre parte per la Svizzera. Accanto a lei c’è anche il figlio. Nell’ultimo anno insieme avevano lavorato alla scrittura di una serie televisiva e adesso si ritrovano fianco a fianco per il percorso più difficile. “Le avevo detto subito che l’avrei accompagnata. Lei inizialmente ha tentennato perché era preoccupata per le ripercussioni legali, poi ha perfettamente capito che anche quella era una mia libertà di scelta: quindi ha accettato e l’ha vissuta con grande gioia anche perché è una condivisione di una stessa battaglia e uno stesso obiettivo”. Durante il viaggio era molto affaticata e provata, “la malattia la stava pian piano uccidendo ed era evidente, sempre di più. Effettivamente era troppo tardi: lei aveva aspettato una risposta positiva dell’Asl”. Il suo stato di salute, infatti, peggiorava giorno dopo giorno. “Arrivati in Svizzera la vedevo in hotel e avevo paura che lei potesse effettivamente morire la notte. Nonostante questo, è stata fortemente determinata, non ha mai pensato di non fare il viaggio per paura di potere soffrire ulteriormente. Uno spostamento anche di 10 minuti per una persona malata terminale, in quella situazione, con tutte le metastasi in giro per il corpo, vuol dire torturarla”, spiega Parpaglioni. “In quei momenti noi siamo stati insieme tutto il tempo possibile: non avevamo bisogno di dire altre parole ma bastava solo guardarci e stare insieme”.

Il 31 sono in clinica: “Il suo addormentamento è stato molto leggero, quasi come un’anestesia totale, e dopo dieci minuti è morta”. Proprio in quel momento, lontano da casa, si conclude il calvario di Sibilla, che poco prima di partire aveva registrato un videomessaggio con le sue ultime dichiarazioni.

“Non ho mai titubato – spiega Parpaglioni – sono convinto che questa sia la scelta giusta. Il reato che viene imputato non lo considero tale, perché moralmente credo che chiunque avrebbe fatto lo stesso. Il problema è che questa impossibilità legale preclude a moltissima gente la possibilità di accompagnare un proprio caro, standogli vicino fino all’ultimo e in maniera dignitosa. Perché si tratta di questo”. Così si rivolge alla politica: “Vorrei fare un appello al governo perché non c’è stata nessun tipo di risposta. L’opinione pubblica in questi giorni si sta facendo sentire moltissimo, c’è un’esigenza popolare riguardo a questo argomento. È una delusione per me vedere che i nostri eletti non stanno dando una risposta. Non solo sarebbe bello avere una legge per permettere alle persone di potere morire dignitosamente e in casa propria, ma anche avere una risposta sia politica che umana riguardo a un argomento che per me è principalmente umano e poi politico”.