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“Gli attacchi di panico? Si rischia di rimanere ostaggio della propria paura”: il libro scritto a quattro mani del neurologo Sorrentino con la figlia

"Panico 2.0. Un disturbo che si può vincere" (Compagnia editoriale Aliberti) è un “racconto” dei disturbi legati all’ansia che il dottor Rosario Sorrentino ha scritto in dialogo con la giovane figlia Giulia, giornalista, blogger e studentessa di medicina - L'ESTRATTO IN ESCLUSIVA

“L’attacco di panico è come vivere in un recinto con delle barriere invisibili, difficili da oltrepassare. Nel nostro Paese soffrono di questo disturbo oltre due milioni di persone, con conseguenze invalidanti, e in definitiva con la perdita della libertà”. Così il dottor Rosario Sorrentino, neurologo, scrittore e divulgatore scientifico, introduce il suo nuovo libro uscito il 25 ottobre: Panico 2.0. Un disturbo che si può vincere (Compagnia editoriale Aliberti).

A distanza di quindici anni dal suo bestseller Panico! Una bugia del cervello che può rovinarci, scritto con Cinzia Tani, Sorrentino torna sul tema con un aggiornamento per molti versi indispensabile, visti i progressi compiuti dalle terapie in questi anni. Panico 2.0 è un “racconto” dei disturbi legati all’ansia, scritto in dialogo con la giovane figlia Giulia, giornalista, blogger e studentessa di medicina. Lontano dalle semplificazioni di certi libri di self-help che sembrano avere la ricetta pronta, il dialogo dei Sorrentino è un intreccio tra esperienza e terapia, tra il distacco del medico e l’affetto tra padre e figlia.

“La buona notizia” dice ancora il dottor Sorrentino al FattoQuotidiano.it “è che da quel recinto si può uscire”. Per farlo, l’unica via è affidarsi a professionisti esperti, senza reticenze o paure. L’errore più grosso resta infatti quello di negare, di minimizzare, di improvvisare. “Così si rischia di rimanere ostaggio della propria paura, rinunciando a vivere“. Mentre oggi, afferma il dottor Sorrentino, con la giusta combinazione delle terapie l’attacco di panico e i disturbi d’ansia si possono vincere. Rompere le sbarre di quella gabbia e tornare finalmente a vivere, oggi si può.

L’ESTRATTO IN ANTEPRIMA ESCLUSIVA

L’attacco di panico, come la depressione, è un disturbo “democratico”, che non chiede la carta d’identità o l’estrazione sociale a chi ne viene colpito, può riguardare davvero tutti, con uguale intensità e imprevedibilità. Soffrirne non è segno né di debolezza, né di fragilità: chi lo pensa non ha compreso la natura del panico, un disturbo che va preso sul serio, perché altrimenti ti annienta, rendendoti la vita molto difficile. Ritornare quindi a parlarne serve, serve moltissimo se vogliamo che le cose cambino e nessuno debba più vergognarsi di soffrirne. È importante affinché le persone arrivino il prima possibile alla diagnosi, perché, se il panico viene sottovalutato, può durare anche per tutta la vita o accompagnarsi con altri disturbi che lo rendono ancora più invalidante. Tornare, quindi, a riaffrontare questo importante argomento può essere fondamentale per abbattere il più possibile quei tanti luoghi comuni e pregiudizi che ancora oggi rendono difficile e tardiva la diagnosi e l’accettazione di un disturbo che, se correttamente curato, si può vincere. L’obiettivo deve essere sempre quello di restituire così a chi ne subisce gli effetti la possibilità di riprendersi, una volta per tutte, la propria libertà e la propria vita.

Qual è la prima cosa che noti in un paziente che soffre di attacchi di panico quando si presenta da te?

La prima cosa è l’espressione del suo volto, la sua disperazione, l’ascoltare frasi del tipo «non ce la faccio più, non posso più andare avanti così», «il panico si è impadronito di tutta la mia vita, affettiva, lavorativa». È un vero e proprio dramma esistenziale, assistiamo a una “dittatura” del panico, perché questo disturbo tende a colonizzare tutti gli aspetti della vita di un individuo. Spesso le persone arrivano da me dopo un lungo calvario, dopo vari tentativi terapeutici. Quello che mi sento ripetere è: «Lei è la mia ultima spiaggia, la mia ultima speranza, la prego mi salvi».

Quali sono i sintomi più frequenti che ti vengono raccontati?

L’esordio varia notevolmente da persona a persona, a volte è un indefinibile senso di fiato corto, instabilità nell’equilibrio, o un senso di calore, che parte dal basso e sale rapidamente, preannunciando poi i sintomi più temuti, come un tuffo al cuore, forte tachicardia, brividi, formicolio alle estremità, spesso a un braccio, che può simulare l’inizio di un infarto. C’è il forte timore di perdere il controllo e il contatto con la realtà. La persona lo descrive come un penoso senso di fuoriuscita dal proprio corpo, come se tutto intorno fosse diventato estraneo, non familiare, ma la cosa peggiore che mi viene riferita è la paura di morire o di impazzire, il tutto accompagnato da una sudorazione profusa, prolungata, e la percezione di un corpo che improvvisamente si irrigidisce e si tende come le corde di un violino. Quello che lascia in quei momenti nella mente è un profondo senso di stupore, per qualcosa che non è stato mai vissuto così prima. Non è raro che la prima volta, oltre a delle urgenti richieste di aiuto, la persona si catapulti letteralmente al pronto soccorso, convinta, profondamente, al di là delle inutili rassicurazioni, di essere sul punto di morire. Quello che chiede, urla, è di essere aiutata, perché vuole continuare a vivere.

Entriamo subito nel vivo: puoi provare a descrivere, attimo dopo attimo, un attacco di panico, la sequenza di quello che accade, per come ti è stato raccontato da uno dei tuoi pazienti, come se accadesse proprio qui, adesso, davanti a noi?

Ci proverò. Lei, la chiameremo Carla, è una donna di quarantasei anni, imprenditrice di successo, sempre in prima linea. Quel giorno ha un appuntamento importante, è appena uscita di casa, sale in macchina, ha fretta, è in estremo ritardo. Il percorso è quello consueto, una strada piuttosto stretta e a una sola corsia. Di solito, lei – mi racconta – ha una guida spedita. Non molto lontano da casa improvvisamente rallenta, si crea una lunga fila, quasi un ingorgo. Prova allora una manovra azzardata, vuole infilarsi per superare il semaforo, che è a tre, quattro macchine davanti a lei. Verde, rosso e ancora verde. Niente da fare, lì sta, lì rimane. Guarda nervosamente l’orologio, il cellulare è sul sedile di lato, legge uno, due messaggi, si aggiusta i capelli. Il traffico – nemmeno a parlarne – non scorre, forse un incidente o una macchina in panne, non si capisce. Suonano i clacson, la gente urla, protesta, è il caos totale, vorrebbe uscire da lì, si guarda indietro, di lato, non è possibile, è completamente bloccata. Ha notato da un po’ che il suo respiro è cambiato, si è fatto lievemente pesante, suda. Strano, non fa caldo, non se lo spiega. Inizia ad avvertire un lieve calore che viene dal basso, dalle gambe e sale a ondate irregolari, accompagnato da brividi intensi e un formicolio al braccio sinistro che va e viene. Poi, subito dopo, caldo, freddo e ancora caldo e infine un sudore freddo alla fronte e alle mani. Il viso è quasi bagnato, afferra di scatto lo specchietto e lo rivolge verso di sé, nota uno strano pallore che fino a poco prima non c’era. Ma non è solo quello che la preoccupa, è che intorno a sé qualcosa, la luce, comincia a cambiare, stenta a mettere a fuoco le cose, sente il suo corpo quasi estraneo, come se non le appartenesse, non fosse più il suo. Pochi secondi e si scatena l’inferno dentro di lei, si tocca il polso, il cuore inizia a battere come un tamburo, con velocità, come se volesse uscire dal petto, lo sente rimbombare nelle orecchie, sul collo e un po’ dappertutto. Il respiro è diventato ormai corto e affannato, non riesce a espanderlo come se avesse un macigno sul petto. Abbassa il finestrino, si sporge fuori con la testa e col collo, ha bisogno di aria. Lo sguardo all’orologio, saranno passati sì e no cinque minuti, ma sembra una eternità, è sconvolta per quello che sta provando, scoppia nel pianto. È in balìa di quello che sta accadendo sotto i suoi occhi, con le gambe e i piedi rigidi sui pedali come tubi di piombo. Non trova le forze, vorrebbe urlare, chiedere aiuto. Finalmente riesce a sterzare, accosta sul marciapiede, abbassa il sedile, si sdraia, è convinta di avere un infarto o che stia per morire. Prende il cellulare, ma le sue dita non le rispondono, sono diventate rigide e curve come degli artigli, prova e riprova a comporre quel numero, intanto le sembra che intorno a lei si siano radunate alcune persone che tentano a più riprese di scuoterla, ma a stento risponde, e lo fa rallentata, con piccoli gesti, scuote la testa, muove le dita per far capire che, sì, è ancora viva. Finalmente dopo un po’ arriva il marito, riesce a biascicare solo poche parole e poi crolla quasi svenuta.

Riuscirà a riprendersi?

Con un filo di voce si abbandona a un singhiozzo e a un pianto struggente e supplica il marito di portarla subito al pronto soccorso, perché si sente di morire, anzi, dice che morirà certamente. Il primo attacco di panico è un evento inatteso, improvviso, di stupefacente intensità, tale da sconvolgere profondamente la vita di una persona. Il dispendio di energie, lo stato di eccezionale tensione, è tale in quei concitati minuti, che il corpo crolla come se avesse corso una maratona o scalato una montagna. Le sensazioni, le emozioni provate sono talmente insolite, nuove, che chi ne viene colpito non riesce nemmeno a capacitarsi, trovare le parole giuste per spiegare quello che ha vissuto in quei lunghi momenti.

Lei ne aveva mai sofferto fino ad allora?

No, mai, non sapeva nemmeno che cosa fosse, ne aveva solo sentito parlare qualche volta e mi disse che le sembrava strano che si potesse stare così male senza motivo.