Ambiente & Veleni

“Fiume Sarno pulito”: la promessa di De Luca costa 600 milioni ma è impelagata tra controlli carenti e leggi che consentono zone d’ombra

“Il fiume Sarno sarà pulito entro il 2025”. È la promessa della Regione Campania guidata da Vincenzo De Luca ed è l’obiettivo del progetto Energie per il Sarno avviato nel 2020. In quei mesi il governatore diceva: “Entro un anno la Campania sarà la regione ambientalmente più avanzata d’Italia”. Nel frattempo, l’impegno finanziario per ripulire uno dei fiumi più inquinati al mondo è passato da 200 a 600 milioni di euro, ma se i lavori per terminare rete fognaria e collegamenti con i depuratori proseguono, ci sono vecchie abitudini dure a morire, alimentate da un sistema di controlli frammentato o assente e da leggi che consentono zone d’ombra. Soprattutto per chi non scarica in fogna, ma direttamente nel fiume o nei canali. Così, passando attraverso 39 comuni e poli industriali come il distretto conciario di Solofra e quello conserviero dell’agro Nocerino-Sarnese, in determinati periodi dell’anno il Sarno continua a cambiare colore a seconda di ciò che viene scaricato.

Il ginepraio di competenze non aiuta. Per gli scarichi in fogna (collegata o meno a depuratore), il controllo spetta all’Ente idrico campano ed è affidato alla società mista Gori nel distretto Sarnese-Vesuviano, in cui ricadono 35 Comuni del bacino del fiume. Qui proseguono i lavori nell’ambito del progetto avviato da Regione, Ente Idrico Campano e Gori: 18 Comuni sono collegati a impianto, 11 lo sono parzialmente e 6 non lo sono affatto. Se un’azienda scarica in una rete collegata a depuratore, deve trattare i propri reflui perché raggiungano i parametri qualitativi di quelli urbani, il resto lo fa l’impianto. Se scarica dove la rete non è collegata, l’acqua finirà nel fiume o in un canale, quindi è obbligata a trattamenti più complessi. Qualche anno fa gli impianti di Scafati e Nocera Inferiore andarono in tilt, perché le industrie sversarono in pochi mesi i reflui che i depuratori avrebbero potuto accogliere in un anno. Compreso il terriccio che viene fuori dal lavaggio dei pomodori. “Per dare un servizio all’altezza, gli impianti che gestiamo devono trattare reflui urbani e non lo scarico industriale” spiega Marisa Amore, responsabile della gestione operativa di Gori. Se non funziona il depuratore, dall’impianto esce di tutto e la società ne risponde. Da qui, i controlli messi in campo: dal 2020 sono stati chiusi 32 scarichi, restano da eliminarne 81.

Ma c’è un terzo tipo di scarico per cui un’azienda può chiedere l’autorizzazione: quello che finisce direttamente del fiume o nel canale, senza passare attraverso la rete fognaria. Esattamente come avviene per gli scarichi in rete non collettata a depuratore, si richiede alle aziende un trattamento completo dell’acqua, solo che in questo caso la competenza sulle verifiche non è di Gori. Il testo unico dell’Ambiente del 2006 disponeva che fosse la Provincia ad autorizzare e controllare lo scarico, prevedendo che le Regioni potessero trasferire la competenza ai Comuni. È accaduto in Campania nel 2011. Lo conferma a ilfattoquotidiano.it Michele Palmieri, a capo della Direzione generale per l’ambiente della Regione: “I Comuni danno l’autorizzazione per quanto riguarda la qualità dell’acqua”. E devono adottare un regolamento sugli scarichi ed eseguire i controlli. Ergo: se un’azienda ha un doppio scarico, uno in fogna e l’altro in corpo idrico, alla Gori spetta il controllo solo sul primo.

Ma chi verifica se i Comuni monitorano gli scarichi di loro competenza? “Non credo che ci sia un controllo sistematico sul controllore” spiega Palmieri. La Regione ne ha mai chiesto conto? “Che io sappia no ma, dal punto di vista tecnico, non è corretto che la competenza sui controlli sia affidata ai Comuni. Che potranno sempre dire che da queste autorizzazioni non ricevono alcun introito. Qui non c’è una tariffa, come nel caso di Gori”. Tra l’altro, il fiume Sarno, con la sua rete di canali, copre un’area di 500 chilometri quadrati. “Ogni Comune – racconta Luigi Lombardi, del comitato “Scafati in difesa del fiume Sarno” – dovrebbe rilasciare le autorizzazioni relative al suo pezzetto di fiume, tenere un proprio censimento degli scarichi e attuare periodicamente i controlli. Ma questi enti non hanno le risorse economiche, tecniche, né di personale per fare neppure un prelievo d’acqua”. Solo l’Arpac è titolata a farli. “Se pure un Comune attuasse la legge, per non vanificare i controlli dovrebbero farlo anche tutti quelli a monte. Ma nella stragrande maggioranza dei casi questi controlli non vengono eseguiti, soprattutto come prescrive la legge”. Ossia in modo “periodico, diffuso, effettivo ed imparziale”. In effetti, da quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, anche in quei pochi Comuni che hanno iniziato a fare i controlli, come Scafati e Nocera Inferiore (dove la zona industriale è stata realizzata prima della rete fognaria, ndr), la frequenza non è quella prescritta dalla legge. A Scafati, il Sarno taglia in due il centro abitato, sovente portando con sé tanfo, esalazioni e allagamenti. Nel 2018, Lombardi aveva chiesto al Comune dove si trovassero gli scarichi autorizzati e con quale frequenza fossero monitorati. “La risposta non è mai arrivata” racconta.

Lo ha fatto di recente anche il consigliere comunale Francesco Carotenuto, chiedendo informazioni su scarichi e controlli eseguiti dal 2011. “Sono sedici le industrie autorizzate. Mi segnalano solo due controlli nel 2021 e tre nel 2023 – spiega – per carenza di personale e di soggetti qualificati per prelievo e analisi dei campioni”. Un’altra richiesta è stata inoltrata nel 2020 al Comune di Castellammare che, nella risposta, attribuiva ancora la competenza alla Provincia. Molti Comuni non si sono dotati di regolamento, altri raccontano di aver autorizzato pochi scarichi, in alcuni casi nessuno. E se sulla carta non ci sono scarichi in corpo idrico superficiale, non si fanno neppure le verifiche. L’assessore regionale all’Ambiente, Fulvio Bonavitacola, conferma: “Non ho dati precisi su cosa facciano i Comuni, ma immagino che abbiano difficoltà per carenza di personale e mezzi”. Dal 2021 è in cantiere la costituzione dell’Unità di Coordinamento ambientale: “Dovrebbe diventare operativa da novembre”.

Ma i dati sempre dai Comuni devono arrivare. L’assessore promette che l’Arpac passerà da controlli spot a campione a un monitoraggio più programmato. Sarebbe ora, anche perché la legge lascia diverse zone d’ombra. “I reflui industriali si possono scaricare solo in assenza di fognatura o se la distanza dalla rete rende l’allaccio troppo oneroso” spiega Palmieri. Poi, però, ci sono le deroghe. Le aziende possono scaricare acque meteoriche. “Spesso anch’esse inquinate – ribatte Lombardi – perché vanno a dilavare i piazzali delle aziende”. Ottenuta l’autorizzazione, inoltre, si possono scaricare acque di processo e di raffreddamento. A patto che rispettino i parametri indicati dal testo unico. Ma chi controlla cosa viene scaricato? Sempre i Comuni? “Tutto secondo norma, ma non a norma se il soggetto vuole delinquere e l’ente competente non va a controllare” chiosa Palmieri. C’è una ragione alle deroghe: scaricare nel fiume le acque bianche non contaminate (almeno sulla carta) serve a non aggravare le fogne e alleggerire gli impianti “dati i costi esorbitanti della depurazione. Certo, bisognerebbe essere certi che le acque bianche che arrivano al fiume non siano contaminate” spiega Palmieri. D’altro canto, se si supera la portata della rete, proprio per evitare che l’eccesso mandi in tilt i depuratori, i reflui si “dirottano” nel fiume attraverso gli scaricatori di piena. Ma in quell’eccesso c’è di tutto, acqua bianca e nera. Un serpente che si morde la coda.