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Scarsa vigilanza e segnali ignorati: le falle dietro all’attentato di Bruxelles. L’analista: “Agire in anticipo era possibile”

I viaggi tra Parigi e Bruxelles del commando che colpì prima il Bataclan e poi l’aeroporto di Zaventem e la fermata della metro di Maalbeek, a Bruxelles. La mancanza di coordinamento tra forze di polizia e intelligence. I quartieri-ghetto dove il proselitismo trova la sua linfa vitale. Tutte le falle dei servizi di sicurezza belgi evidenziati dopo gli attentati del 2015 e del 2016 sono riemersi, ben sette anni dopo, quando la stagione degli attentati in Europa sembrava ormai finita. E sollevano vecchie questioni sull’efficienza delle intelligence europee. Come è possibile che un cittadino straniero senza permesso di soggiorno, noto alle forze dell’ordine come radicalizzato, attivo su Internet e su Facebook, che è uscito dal Paese almeno una volta, sia riuscito ad acquistare indisturbato un fucile d’assalto, pubblicare un video in cui giura fedeltà allo Stato Islamico, uscire in strada e uccidere due cittadini svedesi per le strade della capitale belga? Ilfattoquotidiano.it lo ha chiesto a Matteo Pugliese, ricercatore dell’Università di Barcellona ed esperto di intelligence e antiterrorismo.

Il presunto attentatore ha visto rifiutata la sua richiesta d’asilo nel 2020. Da quel momento ha continuato a fare proselitismo su Internet e sui social, è uscito e rientrato in Belgio indisturbato, nonostante fosse schedato come soggetto radicalizzato, ed è pure riuscito a comprare un fucile d’assalto con il quale ha poi compiuto la strage di lunedì sera. Come è possibile un epilogo del genere dopo il prezzo pagato con gli attentati del 2015 e 2016?
Non è un caso isolato. Belgio e Francia hanno registrato negli ultimi anni attacchi compiuti da persone richiedenti asilo o altre a cui la domanda era stata rifiutata ma che, per qualche motivo, continuavano a circolare indisturbati. Si sostiene che anche i servizi di sicurezza tunisini avessero attenzionato il soggetto, anche se dobbiamo essere molto cauti su questo punto. Loro hanno dei parametri diversi rispetto a quelli europei per considerare una persona un pericoloso estremista. Chi viene schedato così in Tunisia non è detto che possa esserlo anche in Europa. Se però avevano effettivamente delle informazioni c’è da chiedersi se le hanno condivise tramite Interpol con la polizia belga o meno. Nel caso in cui siano state condivise allora c’è da chiedersi perché non si siano presi dei provvedimenti. Come sappiamo, però, sia il Belgio che la Francia hanno mostrato già in passato una mancanza di coordinamento tra polizia e agenzie di intelligence che, non parlandosi, non riescono in alcuni casi a scambiarsi informazioni determinanti per sventare attentati.

Un provvedimento nei confronti del presunto terrorista poteva però essere preso ugualmente, dato che la sua domanda di asilo era stata rifiutata.
Questo caso è infatti diverso da quelli degli attentati di Parigi o di Bruxelles tra il 2015 e il 2016. In quel caso avevamo di fronte dei soggetti radicalizzati ma che erano cittadini belgi, quindi non potevano essere seguiti e pedinati 24 ore su 24, 365 giorni l’anno, anche solo per le risorse necessarie a svolgere un compito del genere. E quindi è possibile che certi movimenti sfuggano al controllo delle forze dell’ordine. In questo caso c’è una persona di un Paese terzo, notoriamente radicalizzata, alla quale è stato chiesto di lasciare il Paese. In una situazione del genere le forze dell’ordine potevano agire e procedere con l’espulsione.

Cosa è stato fatto per aumentare il livello di interazione tra le varie forze e agenzie che si occupano di sicurezza?
Dopo la stagione degli attentati in Europa, si è cercato di creare dei coordinamenti più efficaci con delle strutture chiamate fusion hub, le abbiamo anche noi in Italia, per scambiare in modo continuato informazioni tra le varie agenzie per cercare di limitare un certo tipo di attacchi.

Sembra però con scarsi risultati.
Beh è evidente. Tra l’altro questa persona è stata avvistata nel 2021 a Genova, nella zona proprio del consolato della Tunisia, il suo Paese d’origine, e in un video si lamenta delle difficoltà di passare i controlli tra Paesi Ue. Nonostante questo, è riuscito a muoversi praticamente indisturbato. Inoltre, va detto che ci sono due elementi che dovevano far scattare un allarme tra i servizi di sicurezza. Il primo è l’arma usata, ché non era un semplice coltello ma un fucile d’assalto evidentemente acquistato sul mercato nero attraverso un network della criminalità organizzata. Il Belgio, attraverso qualche informatore, se ne sarebbe dovuto accorgere. A questo si aggiunge il fatto che un’ora prima dell’attentato il presunto terrorista ha caricato un video su Facebook aperto a tutti in cui giurava fedeltà al Califfato. Su un soggetto attenzionato, questo tipo di video deve attivare le forze di polizia. Invece abbiamo assistito alla situazione imbarazzante di un attentatore che girava in moto, con una giacca fluo, che è stato rintracciato solo la mattina dopo l’attacco in un bar del suo quartiere e solo dopo la segnalazione di un cittadino.

Quanti sono stati gli attacchi terroristici in Belgio dopo il marzo 2016?
Ne ho contati sei, di cui tre mortali, ossia quello di ieri, quello del 2022 a Bruxelles e quello del 2018 a Liegi. Poi altri tre non mortali nel 2017 a Bruxelles e nel 2016, uno proprio nel quartiere Schaerbeek di Bruxelles e a Charleroi. Negli ultimi attentati si è privilegiato l’uso di armi bianche e si sono presi come obiettivo i poliziotti. Quello di lunedì è stato un attacco atipico, diretto non contro forze dell’ordine o civili in quanto ‘infedeli’, ma precisamente mirato a colpire cittadini svedesi.

Come sappiamo, ci sono dei quartieri maggiormente problematici da questo punto di vista. Questa volta è stato Schaerbeek, mentre conosciamo tutti Molenbeek. Sono stati fatti degli investimenti sulle politiche sociali in queste aree?
Sono quartieri che sono terreno fertile non solo per il terrorismo, ma anche per la criminalità organizzata. Questo li ha resi negli anni una sorta di microcosmo. Dopo gli attentati sono stati fatti degli interventi di tipo sociale per prevenire la radicalizzazione, anche finanziati dall’Ue. Ma probabilmente i fondi a disposizione e i progetti messi in campo non sono sufficienti per risolvere certe problematiche in questi quartieri. Servono interventi più profondi e a lungo periodo.

Invece dal punto di vista repressivo le operazioni antiterrorismo hanno conosciuto un incremento o si è rimasti agli standard del 2016?
C’è stato un aumento negli anni immediatamente successivi, con l’allerta terroristica che era più alta, lo Stato Islamico esisteva ancora e gli attacchi o i tentativi di attacchi erano ancora molti. Poi con la pandemia sono diminuite da una parte le attività di preparazione degli attacchi, per le difficoltà anche negli spostamenti, e di conseguenza anche quelle di repressione.

Twitter: @GianniRosini