Scuola

Giorgio Gori promuove una raccolta firme contro i tre mesi di vacanze estive: torna l’idea di scuola come parcheggio

di Davide Trotta

Negli ultimi bagliori estivi è consolante vedere come il sole ancora splenda alto su Bergamo, in particolare sul palazzo del sindaco Giorgio Gori che, evidentemente beneficiario di messianiche illuminazioni, ha finalmente risolto i problemi della nostra caracollante Italia.

Si penserà che avrà escogitato un piano economico-sociale volto a sanare le disparità sempre più marcate all’interno del nostro Paese. Ma no, di meglio: avrà quindi elaborato un piano antialluvionale in vista di chissà quale altra catastrofe naturale investirà il nostro Paese.

Ma no, meglio ancora: con acuto occhio di lince ha promosso una raccolta firme contro i famigerati tre mesi di vacanze estive nella scuola italiana, equiparata per questo peccato originale alle scuole di Malta e Lettonia. Qui si annidano le principali criticità del paese, in quanto le famiglie – tale è l’argomentazione addotta, per altro un poco consunta – non sanno che farsene dei loro pupi per tre mesi a casa e quindi la scuola assurge nuovamente a parcheggio per gli eredi ingombranti delle casate italiane.

Ad analogo impiego della scuola a mo’ di parcheggio abbiamo già assistito ai tempi del Covid, quando la renitenza a chiudere le scuole coincideva con la premura di trovare un rifugio per i pargoli della famiglie. Premura che però sarebbe richiesta anche, e ancor più, nel soccorrere con adeguate misure socio-economiche le pericolanti famiglie italiane, beneficiarie invece di attenzioni di facciata all’uopo ideate. L’argomentazione presentata con disinvoltura, tanto la politica l’ha sdoganata nel corso dei decenni fino a farla diventare un mantra negli ultimi anni, non nasconde una concezione un poco svilente della scuola, ove istanze utilitaristiche ne snaturano sempre più intenti e sentimenti. Affiora il dubbio che alle spalle dei numerosi episodi di bullismo scolastico (beninteso, contro i professori ormai!) e di perenni ricorsi contro bocciature e debiti degli studenti, non vi sia proprio l’inadeguatezza della classe politica che, con atteggiamenti di buonismo a uso e consumo elettorale, esasperano il ruolo preponderante, talora prepotente, delle famiglie, destituendo di autorevolezza la categoria docenti.

Insomma, se la politica asseconda le bizze delle famiglie, anche i prof si trovano nell’imbarazzo di dovervi soggiacere. Ma nella propinata panacea di tutti i mali, cioè l’auspicata riduzione dei tre mesi di vacanza, pare dissimulato motivo ben più sentito e radicato: una sorta di invidia sociale verso quei fannulloni di prof che, oltre ad abusare di pattini e sci durante le vacanze di Natale, esagerano in estate con pinne, fucili e occhiali.

A Gori e ad altri rabdomanti dei problemi italiani sfugge che il peccato originale dei tre mesi di vacanza è abbondantemente scontato con stipendi da fame che – si obietterà – è il giusto contrappasso per la categoria. Fino a un certo punto: non dimentichiamoci che quasi ogni prof ha una laurea accompagnata o da percorsi abilitanti o concorsi vivisezionanti, il che fa di un docente un professionista della sua materia di insegnamento. Aggiungiamo che di quanto studiato per una vita a volte si deve lasciare tutto o quasi da parte, perché l’insegnamento oggi più che mai assume più i contorni o di uno show volto a intrattenere studenti disinteressati o di un assistenzialismo sociale verso situazioni disagiate e mille altri artifici che di volta in volta l’intelligenza del singolo deve capire quando mettere in campo, tanto è lo spirito di adattamento e il camaleontismo richiesti da tale lavoro. Che, non è un caso, è quello più soggetto a burnout: secondo studi recenti, un docente su due lo sperimenta sulla propria pelle.

Mettiamoci anche che tra i lavori del pubblico impiego questo è quello che implica il contatto maggiore col pubblico, dalle famiglie agli studenti che, come capita a chiunque stia dall’altra parte del palcoscenico, si trasformano a loro insaputa da “giudicati” in spietati “giudicanti”: notano come ti vesti, se sei veramente interessato a loro, anche se di te a loro può non fregare niente; più in generale i contenuti, che si è in grado di trasmettere con pochi cenni a un esaminatore di concorso, davanti a una classe richiedono altre modalità espressive, un altro piglio: insomma, non basta “sapere”, il prof deve sapere arrivare nell’animo di chi ha di fronte di volta in volta con formule e modalità differenti che non troverai mai né su Google né sui libri del miglior Platone. E da pubblico impiegato deve pure fare attenzione a come rispondere a un genitore che lo minaccia di querele per ignoti motivi o a come difendersi se un genitore/studente lo impallina con una pistola (episodi non rari).

Taccio delle ore di lavoro riservate a preparazione di lezioni, correzione di verifiche, ore di assemblee pomeridiane (scrutini, consigli di lasse ordinari e straordinari, collegi docenti, colloqui con le famiglie) che tutte rientrano in quello stipendio da mille (meno) e una notte. Ma per una notte di vacanza estiva in più ci può stare.